Ho visto “Il grande quaderno” di János Szász

Due bambini gemelli sono affidati alla nonna materna in campagna: è il periodo dell’occupazione nazista dell’Ungheria. Il padre è al fronte, la madre è chissà dove. La nonna, chiamata ‘la strega’ dagli abitanti del vicino villaggio, è una grassa megera, sporca, sboccata e manesca, che vive in una casa isolata in mezzo a maiali e galline. E’ vedova e conserva nella tomba del marito un piccolo tesoro. Ha accettato malvolentieri di custodire i bambini, che non aveva mai conosciuto prima, in quanto la figlia da vent’anni non si faceva vedere. Li mette subito a lavorare duramente e li sottopone a continue angherie. I due gemelli consegnano a un diario – il grande quaderno – regalato loro dal padre quando è partito per la guerra, la cronaca di quelle giornate. Insieme reagiscono a schiaffi e privazioni coltivando una sorta di personalissimo stoicismo: si abituano a sopportare il dolore, la fame, la sete, la mancanza di affetto. Si creano così una corazza morale e fisica che li aiuta a superare le brutture della guerra e della povertà, le sozzure imposte loro dai grandi. Intanto i nazisti occupano, deportano, distruggono. I due ragazzini così autoprotetti guardano impassibili la distruzione, l’orrore e la morte attorno a loro, anche quando riguarda il calzolaio ebreo loro amico, la madre tornata a prenderli, l’amichetta stuprata a morte dai soldati sovietici subentrati ai nazisti nell’occupazione dell’Ungheria, la stessa nonna con la quale hanno infine instaurato un rapporto quasi d’affetto, il padre rientrato dal fronte dopo la guerra e trattato come uno sconosciuto qualsiasi. Alla fine per sopravvivere devono abbandonare la stamberga della nonna e spezzare il loro fortissimo legame, ma la cosa non sembra preoccuparli più di tanto. Viene da chiedersi cosa diventeranno da adulti quei piccoli duri senza sentimenti. Forse dei killer brutali e spietati, comunque dei mostri disumanizzati dalla guerra.
László e András Gyémánt sono i due gemellini, mai indicati per nome, Piroska Molnár è l’incredibile nonna. Il film è duro, scoraggiante e non lascia spazio a grandi speranze. Anzi, arriva quasi come un pugno al plesso solare. La fotografia è di Christian Berger, abituale collaboratore di Michael Haneke.
Non ho letto il romanzo omonimo (1986) di Ágota Kristóf da cui cui è tratto il film e che compone con La prova (1988) e La terza menzogna (1991) la Trilogia della città di K. Forse è il caso di provvedere.

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