Ho letto “La setta degli angeli” di Andrea Camilleri

La pinitenza è comu il piccato.
Il paese (Palizzolo) e la provincia (Camporeale) sono inventati come succede spesso nei romanzi di Camilleri. La storia, anch’essa fantasiosa, trae però lo spunto da un fatto realmente accaduto nel 1901 ad Alia (Palermo) e che attirò l’attenzione nientemeno che di Don Sturzo e di Turati. Protagonista è Matteo Teresi (realmente esistito), di idee socialiste, già farmacista poi avvocato e pubblicista, editore di un foglio in proprio, che denunziò una vicenda boccaccesca che coinvolgeva un certo numero di preti e alcune giovani donne, per lo più minorenni. Era una vera e propria associazione a delinquere (“La setta degli angeli”!) che con la scusa di esercizi spirituali irretiva le fanciulle, nobili o popolane, perché la minchia non abbada a differenza di classi.
Ad aiutarlo nell’approfondire le sue intuizioni – Mi voli fari accridiri la storia di ‘na minchia vagante che passa di chiesa ‘n chiesa?! – c’è un irreprensibile capitano dei carabinieri, il piemontese Montagnet. Insieme riescono a scoperchiare il verminaio morale che si annida in paese ma si mettono contro il clero (che preferirebbe lavare i panni in casa), l’aristocrazia (alcune sono figliole di nobili), la mafia (che come sempre sovrintende su tutto). E così arriva l’inevitabile riflusso.
Si può essere coraggiosi quanto si voli, ma ‘na pallottola che ti passa rasenti la testa tanticchia di nirbùso te lo fa viniri comunque.
Montagnet, “promoveatur ut amoveatur”, diventa maggiore e viene spedito ad Alessandria, mentre all’avvocato Teresi non resta che raggiungere un fratello emigrato negli Stati Uniti.
Camilleri questa volta usa un dialetto ancora più stretto del solito, ma il libro è divertente: più volte mi sono sorpreso a ridacchiare. Due piccole critiche. Non può un siciliano spiegare a un piemontese che cos’è una cavagna! Una ingenuità del signor Camilleri. La seconda è che non avrei affidato la spiegazione di alcuni fatti a quattro articoli “scritti” da Teresi sul suo giornale. In questo modo Camilleri ha accelerato il finale ma ha inevitabilmente rotto il ritmo della narrazione.
“Chiamo il tenente e la faccio tradurre”.
“A mia mi fa tradurre?” fici don Anselmo satanno addritta. “E comu minchia mi fa tradurre? ‘N greco? ‘N francisi?”.

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