Ho visto “Il figlio di Saul” di László Nemes

Mi fa piacere che sull’onda del Premio Oscar per il miglior film straniero torni nelle sale Il figlio di Saul. E’ un film che quante più persone possibile devono vedere. Io l’avevo visto nella settimana del Giorno della Memoria, quando gli schermi cinematografici e i palinsesti televisivi si affollavano di film sulla Shoah. Non è un film cinematograficamente bello, né per costruzione né per estetica. Il regista ungherese László Nemes sceglie il formato 4:3 proprio per rinunciare a qualsiasi intento di spettacolarità. Non è un film bello, ma è un film necessario, come tutti quelli che seriamente affrontano il tema di una delle pagine più drammatiche della storia dell’umanità. Nemes porta lo spettatore nell’inferno di Auschwitz-Birkenau nell’ottobre del 1944. La fine della guerra è lontana solo qualche mese, i tedeschi sentono avvicinarsi l’ora della disfatta e  accelerano lo sterminio nelle camere a gas. Il protagonista Saul Ausländer è un membro ungherese del Sonderkommando, gruppo di prigionieri ebrei che in cambio di piccoli e provvisori privilegi – soprattutto veder ritardata la propria esecuzione – sono costretti ad assistere i nazisti nella loro opera di sterminio. Sono squadre speciali che svolgono un lavoro orrendo sulla pelle dei propri compagni. Poco si è scritto e poco si è visto al cinema di queste squadre, al contrario dei kapò. Dei Sonderkommando ha scritto Primo Levi in Se questo è un uomo (“Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo”) e di cui tenta una difesa in I sommersi e i salvati (“credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza del Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta”).
C’è voluto un libro, tratto dai manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz (La voce dei sommersi, Marsilio), per riportare alla luce questa tragica esperienza. Da lì è partito Nemes per il suo film che non ci risparmia nulla. Nell’assurda catena (quasi si tratti di una fabbrica) “camera a gas-forno-dispersione delle ceneri” credo ci sia quanto di più drammatico, crudo e assurdo si sia visto al cinema sulla tragedia dei campi di sterminio. E fa impressione sentire i tedeschi chiamare stück (pezzo) i corpi da eliminare.
Saul crede di riconoscere in un ragazzino, inspiegabilmente sopravvissuto al gas e poi ucciso da un medico, il proprio figlio. Per questo il suo unico scopo diventa dargli una sepoltura secondo il rito ebraico, evitandogli la cremazione. La sacralità di un corpo da salvare per lui diventa una missione simbolica, che contrasta con quanto avviene attorno. Si dà da fare per cercare tra i reclusi un rabbino che reciti il Kaddish mentre i compagni, che stanno preparando una rivolta, lo rimproverano: stai  sacrificando i vivi per seppellire un morto. La rivolta dà origine a una fuga di breve durata e il film si chiude sull’immagine di un bambino che osserva i fuggitivi prima che i mitra dei nazisti li annientino. E’ l’unico momento di debolezza (o di incongruenza) di un film complessivamente rigoroso. Il regista è un ungherese esordiente, neanche quarantenne. Oscar strameritato!

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