Ho letto “L’impostore” di Javier Cercas

Veramente, bisogna diffidare dei predicatori della verità. Veramente, così come l’enfasi sul coraggio denuncia il vigliacco, l’enfasi sulla verità denuncia il bugiardo.
Che personaggio questo Enric Marco! Javier Cercas gli si accosta, poi si ritrae, infine gli si avvicina nuovamente e decide di scrivere un libro su di lui. Ma a modo suo e non come vorrebbe l’impostore, manipolando ancora una volta la verità a suo piacimento. Come maneggiare allora una vicenda che è fatta solo di menzogna? Cercas si interroga: “Capire significa giustificare? tornavo a domandarmi ogni volta che ricordavo quella frase. Dobbiamo proibire a noi stessi di capire o piuttosto siamo obbligati a farlo?” La frase su cui si interroga lo scrittore spagnolo è di Primo Levi, perché il substrato del libro è la deportazione e il luogo da cui diparte l’impostura è Flossenbürg. Scriveva Levi: “Forse quanto è accaduto non deve essere capito, nella misura in cui capire significa giustificare”. Cercas trova la soluzione in Tzvetan Todorov che affermava che i sopravvissuti ai campi di sterminio non devono capire i propri aguzzini, perché la comprensione indica un’identificazione con loro che può portarli all’annichilimento.
Ed Enric Marco non è un ex deportato. Si è inventato tutto. Certo, è stato in Germania durante la guerra ma come operaio volontario per sfuggire all’arruolamento in patria e in virtù di un accordo di collaborazione tra la Spagna franchista e i tedeschi. E’ stato anche imprigionato, ma a Kiel come delinquente comune e non a Flossenbürg.
Altro interrogativo che si pone l’autore è: “E’ possibile beccare un bugiardo? Si becca prima un bugiardo che uno zoppo, sostiene un detto spagnolo”. Ma non è così, il detto è falso. Eppure Enric Marco non è solo un bugiardo perché i buoni bugiardi non soltanto trafficano con le menzogne, ma anche con le verità, e le grandi menzogne si costruiscono con piccole verità. E con le omissioni, aggiungo io.
L’impostore è un romanzo vero sulla finzione del suo protagonista. Cercas incontra Marco per mesi e mesi, lo filma, ne esamina le carte, ne scopre le singole menzogne. E’ come se gli radiografasse la mente e l’anima. Dopo la guerra Enric Marco si è inventato un passato esaltante: combattente del franchismo, eroe di guerra, esule politico, vittima del nazismo, partigiano della libertà. Questo lo ha portato ai massimi livelli del suo Paese: leader operaio, segretario del sindacato anarchico spagnolo, presidente dell’associazione deportati e sopravvissuti dai campi di sterminio, un eroe civile osannato dal popolo e ascoltato in Parlamento. Nel 2005 uno storico, Benito Bermejo, ne ha svelato l’impostura e Marco ha dovuto restituire tutto, onorificenze e onori. In seguito Cercas ha finito di demolire, pezzo dopo pezzo, la sua storia costruita con narcisismo, ansia di protagonismo, fervida immaginazione. Tanto che al termine di una delle tormentate interviste, ha dovuto dire: “mi lasci almeno questo!”.
Cercas paragona Enric Marco a Don Chisciotte: Tra la verità e la vita, scelgono la vita: se la finzione salva e la realtà uccide, scelgono la finzione.
Dandosi delle risposte su Marco, Javier Cercas interroga anche se stesso, analizza la propria figura di scrittore, ripercorre la storia spagnola di tutto il secolo, in particolare dalla Guerra Civile alla Transizione. Sono quattrocento pagine dense di riferimenti letterari. Cita Faulkner, Capote, Carrère, Magris, Vargas Llosa. Se un appunto posso fare allo scrittore è che alcune vicende sono un po’ ripetute, avrebbe potuto dare migliore organicità alla materia. Resta tuttavia un gran libro da tenere sempre ben presente contro i pericoli (e i tentativi) di riscrittura della Storia. Lo Stato non deve legiferare sulla storia, tanto meno sulla memoria, è l’ultimo ammonimento di Javier Cercas. Enric Marco, classe 1921, è tuttora vivo e vegeto.

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