Ho visto “Revenant – Redivivo” di Alejandro González Iñárritu

Inarrivabile Iñárritu, fa sempre un film diverso, passa da un genere all’altro con disinvoltura, tanto che mi sento di avvicinarlo a Kubrick. Avevamo ancora negli occhi e nella mente il coinvolgente Birdman dello scorso anno e ora ci ritroviamo davanti questo film d’avventura ambientato nel North Dakota fra i cacciatori di pelli dell’800. Non c’entra nulla, ma mi ha richiamato alla memoria l’epopea di Butcher’s Crossing, splendido romanzo di John Williams con cacciatori di pelli e paesaggi invernali al limite della sopravvivenza umana. The Revenant ha lo stesso soggetto – la vera vita del cacciatore Hugh Glass – di un film del 1971, Uomo bianco va’ col tuo dio!  Sono andato a guardarmelo, è un film diretto da Richard C. Sarafian in cui il ruolo di Di Caprio è interpretato da Richard Harris, mentre il capitano Henry è il grande regista John Huston. Tra le due pellicole ci sono poche differenze, i nomi cambiati – Bass invece di Glass – e l’ambientazione che non è invernale. Certo i mezzi e le tecnologie di ripresa di quei tempi non erano quelli a disposizione di Iñárritu, ma resta comunque un gran bel western. Sarafian però si ispirava alla storia tramandata nei giornali dell’epoca, mentre Iñárritu trae la sceneggiatura dal libro del 2002 di Michael Purke, The Revenant: A Novel of Revenge.
Tornando al film premio Oscar 2016, la vicenda si sviluppa nel 1822 tra le montagne del Missouri in un paesaggio che più invernale non si può. Il trapper Glass, che ha vissuto in un villaggio Pawnee e aveva una moglie uccisa in un assalto dei soldati americani, guida un gruppo di cacciatori di pelli attraverso le montagne per sfuggire agli attacchi degli indiani Ree. Con lui è il figlio adolescente Hawk. Tra Glass e il cacciatore Fitzgerald si profila fin dall’inizio uno scontro sugli indirizzi della missione. Il trapper, dopo essere stato aggredito da un’orsa, viene abbandonato perché ritenuto ferito gravemente e quindi dato per spacciato. Per un po’ rimane con lui Fitzgerald, con Hawk. Poi lo abbandona definitivamente dopo averne ucciso il figlio. Qui inizia il film sull’incredibile sopravvivenza di Glass, nonostante la natura ostile, spinto soprattutto dalla smania di vendetta. Frase topica: la vendetta è nelle mani del creatore. E riuscirà a vendicarsi di colui che l’ha abbandonato, passando però attraverso mille vicissitudini, prime fra tutte la neve e il gelo. Emblematica è la notte in cui sventra il cavallo con il quale è precipitato in un dirupo, per rifugiarsi nella sua pancia e proteggersi dal gelo.
Il film ha dialoghi rarefatti, ci sono lunghi momenti in cui predominano i rumori della natura e il respiro affannoso, a tratti bronchitico, di Glass/Di Caprio. Tutto vero perché è stato girato in condizioni estreme, anche con 40° sotto zero, nella Columbia Britannica e in piccola parte nella Terra del Fuoco. Di Caprio è sempre coperto – dalla barba, dalle ferite, da pesanti copricapi, per non parlare delle pellicce pesantissime che ha indossato – sicché a stento lo si riconosce. Dominano però i suoi occhi. L’Oscar per la miglior regia a Alejandro González Iñárritu è forse più giustificato di quello alla miglior interpretazione maschile. Il premio a Di Caprio suona più come una compensazione per le precedenti nomination non vittoriose ed eventualmente come un tributo per le condizioni in cui ha lavorato. Efficace il grizzly interpretato da uno stuntman (ormai al cinema si può rendere tutto molto credibile). Alle musiche ha messo mano niente meno che Ryūichi Sakamoto e istantaneamente il pensiero va a quel capolavoro di Furyo e al compianto David Bowie.

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