Ho visto “Room” di Lenny Abrahamson

Tratto da un romanzo del 2010 (Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue – Mondadori) ambientato in Canada, a sua volta ispirato a un clamoroso fatto di cronaca, il cosiddetto caso Fritzl avvenuto nella cittadina austriaca di Amstetten dove una donna ha vissuto imprigionata dal padre per 24 anni in un bunker sotterraneo, Room è un dramma psicologico di forte impatto.
A differenza della protagonista del fatto di cronaca, Joy ‘Ma’ a diciassette anni è stata segregata in un capanno blindato da un maniaco che l’aveva adescata con un banale pretesto. Room/la stanza per lei e il suo bambino Jack, che da quando è nato non ha visto altro che quelle quattro pareti foderate di sughero, diventa l’universo mondo. A Jack sembra normale tutto ciò: vede il giorno e la notte solo attraverso un lucernario, al mattino si sveglia salutando le cose che lo circondano, il lavandino, l’armadio, la lampada. Attraverso la televisione scopre altri mondi ma confonde le persone reali con i cartoni animati. Unica presenza viva è il carceriere Nick che ogni notte entra nella stanza e si infila nel letto della madre. In quei momenti si rintana nell’armadio. La madre lo protegge e non vuole che veda quella specie di padre. Dopo sette anni di prigionia e quando il bimbo ne compie cinque, Joy decide che è ora di trovare una soluzione alla loro segregazione e simula la morte di Jack per farlo portare fuori dalla stanza. A questo punto lo spettatore ha già accumulato una buona dose di ansia claustrofobica tanto che verrebbe voglia di dire basta e di uscire dal cinema.
Ma a questo punto comincia un secondo film che segna il loro ritorno alla vita. Fuori dalla porta c’è il mondo reale che Jack non ha mai visto: la polizia, i nonni, gli psicologi, l’assedio dei media, ma anche gli alberi, le nuvole, un cane e un primo amichetto. Jack supera il trauma della trovata libertà in maniera agevole, vince le prime diffidenze e dimostra una insospettata maturità. Il regista ci propone proprio il punto di vista del bambino. ‘Ma’ invece vive una situazione di forte disagio da cui esce solo dopo una visita con il figlio al capanno ormai semidistrutto che per anni è stato ‘stanza’.
L’uscita di Jack dal capanno, avvolto dentro un tappeto arrotolato e caricato sul pickup del maniaco, è un momento cinematografico da vertigine. Dopo tanta claustrofobia, allo spettatore pare quasi di scendere vertiginosamente in un ottovolante.
La scrittrice Emma Donoghue ha sceneggiato e coprodotto il film che ha raccolto una quantità industriale di premi culminata con l’Oscar 2016 alla miglior attrice protagonista, Brie Larson. Il piccolo Jacob Tremblay però non è solo bravo, è a dir poco eccezionale. Nel cast, tra attori semisconosciuti, spicca in una particina William H. Macy. E’ il nonno di Jack e non vuol saperne di quel nipote frutto di uno stupro. Ma lo ricordate in Fargo?

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