Ho visto “El abrazo de la serpiente” di Ciro Guerra

Un film importante, basato sui diari del tedesco Theodor Koch-Grunberg e dell’americano Richard Evans Schultes, entrambi etnologi, che a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro hanno intrapreso un viaggio nell’Amazzonia nord-occidentale alla ricerca di una pianta medicinale molto rara, la yakruna. L’esplorazione del primo si è svolta nei primi anni del ‘900, quella dell’americano, oggi considerato l’inventore dell’etnobotanica, negli anni ’40 avvalendosi peraltro dei diari lasciati da Koch-Grunberg. Hanno però avuto in comune la guida Karamakate, un importante sciamano che viveva in solitudine dopo lo sterminio del suo popolo da parte dei bianchi. Nel film, che alterna le fasi delle due esplorazioni, lo vediamo prima guarire con le sue arti mediche lo scienziato tedesco, gravemente malato, che è accompagnato dalla guida indigena Manduca.
Dopo diversi decenni ritroviamo Karamakate, ormai molto anziano ma anche più saggio e riflessivo, che guida l’americano sui luoghi delle esplorazioni precedenti. Frattanto l’Amazzonia è stata violentata e depredata dai colonizzatori bianchi, in quel periodo letteralmente affamati di caucciù. Solo gli indigeni, pur nella loro ignoranza, difendono tenacemente la Natura. I due scienziati percorrono le rapide del fiume, incontrano tribù ostili ma si rendono conto che i danni maggiori sono provocati dai bianchi (anche da peruviani e colombiani) che hanno sterminato intere popolazioni per i loro affari. Emblematico l’incontro in una missione con un frate violento che fustiga i bambini e in un momento successivo con un bianco esaltato che si ritiene il Messia e istiga al suicidio gli indigeni. Questi episodi a parte, il film è uno scontro continuo tra le due civiltà: quella degli scienziati, esemplificata da oggetti come la bussola e il grammofono, quella di Karamakate, basata su sogni e visioni. Il punto d’incontro sono gli allucinogeni di cui tutti fanno uso e la yakruna ne è meramente un simbolo. Come pure il serpente è soltanto una metafora del Rio delle Amazzoni che, visto dall’alto, è tortuoso e pare voler stringere l’uomo in un abbraccio mortale.
Il regista colombiano Ciro Guerra sceglie un vistoso bianco e nero e il film non perde nulla in fatto di spettacolarità. Con questa opera ha vinto un premio alla Quinzaine di Cannes 2015 e ha ricevuto la nomination all’Oscar quale miglior film straniero. Un plauso ai gestori del cinema Classico di Torino che hanno avuto il coraggio di proporlo, tra l’altro in versione originale.

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