Ho letto “I cento fratelli” di Donald Antrim

La mia ultima lettura del 2017 coincide con il romanzo più strano che abbia mai letto in vita mia, I cento fratelli di Donald Antrim. Ne sono venuto a conoscenza durante un’altra recente lettura, Più lontano ancora di Jonathan Franzen, in cui lo scrittore newyorkese fa l’elogio del libro del collega, recensione peraltro inserita come prefazione all’edizione che ho in mano (minimum fax, 2011). I cento fratelli è un romanzo pubblicato nel 1998. In Italia la prima edizione è del 2004, grazie all’ottima traduzione di Matteo Colombo (si parla sempre troppo poco dei traduttori), torinese quarantenne a cui si devono le traduzioni dei più importanti scrittori americani dell’ultimo quarto di secolo, tra cui il mio amato Palahniuk (Pigmeo, Dannazione). Antrim, anche lui americano, viene annoverato dai critici tra i rappresentanti della letteratura postmoderna che ha origine da Thomas Pynchon, con i suoi discendenti Murakami e Foster Wallace, e più precisamente in quello che viene definito ‘realismo isterico’. Etichette, solo etichette e chiedo scusa al compianto Claudio Gorlier per queste semplificazioni.
Ma torniamo ai cento fratelli. La narrazione rispetta due delle unità aristoteliche: il tempo, tutto si svolge in una sola notte, e il luogo, interamente dentro la storica dimora di famiglia, caratterizzata da una gigantesca biblioteca. Quanto all’azione…
Doug, il narratore, è il centesimo fratello. Tutti sono figli dello stesso padre, ma non si sa di quante madri perché le donne sono tassativamente escluse dalla narrazione, così come i bambini e pure ogni riferimento geografico o temporale. Né viene spiegato come possano essere stati tutti generati dallo stesso padre in un arco di tempo che dovrebbe superare i settant’anni, poiché i più giovani sono appena fuori dall’adolescenza e il più vecchio ne ha più di novanta. E’ Hiram che non casualmente ricorda la figura allegorica del rituale massonico. Hiram ha novantatre anni, ed è unanimemente disprezzato per i suoi molteplici e umilianti atti di crudeltà.
Nel volgere delle prime pagine, Doug ci presenta per nome tutti i novantanove fratelli, delineando ciascuno con una breve caratteristica (architetto, medico buono, scrittore di diari, attivista, spia, documentarista…) o con l’appartenenza ad un gruppo (i giovani padri, i donnaioli impenitenti, i plurigemelli…). E ci spiega subito perché si sono ritrovati lì: …ci siamo di recente riuniti nella biblioteca rossa e abbiamo deciso che era giunto il momento, infine, di dire basta alla tristezza, di lasciarci il passato alle spalle, condividere una cena leggera e rintracciare, ammesso che la cosa ci risultasse sopportabile, l’urna smarrita contenente le ceneri del vecchio rompicoglioni. Che sarebbe il padre di tutti loro.
L’atmosfera iniziale sembra essere quella tipica di certi club anglosassoni ad esclusiva partecipazione maschile: ...divani e poltrone sormontati da stampe inglesi con scene di caccia e dalle teste di animali uccisi, imbalsamati, desolati, africani, che ci fissavano da rettangoli di parete incorniciati tra ripiani di legno carichi di collezioni vittoriane e opere di oscuri poeti.
A maggior ragione lo dimostrano i discorsi tra loro, i dialoghi a due a due o di gruppo in cui si esplicitano tutti i temi tipici del maschilismo più atavico: football, gioco d’azzardo, sesso, cibo, scazzottate, caccia, pornografia, bevute colossali, desideri omosessuali, malattie, dimensioni del pene… insomma tutto quel catalogo di argomenti che si possono ascoltare, ad esempio, negli spogliatoi di una palestra. Atmosfera che mi ha fatto tornare in mente la foto di una famosa pubblicità di qualche anno fa, in cui uomini di ogni età vestiti del solo asciugamano ridacchiano sornioni probabilmente discutendo di donne. E’ un clima rilassato che attende solo di degenerare attraverso scherzi, piccoli incidenti, formarsi di alleanze, vere e proprie risse, caccia all’uomo. Intanto il tasso alcolico sale. E infatti succede di tutto, in un crescendo tragicomico. Accade anche che Doug si travesta da Re Grano indossando sul volto una maschera tribale africana e le sole mutande. Il quale Doug ci mette anche al corrente di alcune lapalissiane ovvietà: Niente può competere con l’estasi primitiva del pisciare in un luogo che non sia il bagno. E infatti comincia a zigzagare con il volatile irrorando alcuni capolavori letterari anche fino al terzo e quarto ripiano della biblioteca. E come se non bastasse ci mette a parte del ...generico processo della scrollatina tipico dell’uomo maturo: svariate rapide scosse seguite da una breve pausa, a sua volta seguita da altri lievi sballottamenti, ripetendo la trafila finché tutto l’apparato non risulta asciutto e sicuro. Col passare degli anni, mi ritrovo a scrollarlo per intervalli sempre più lunghi, e impiego questo tempo per crucciarmi cupamente sulle mie generali condizioni di salute...
Insomma, mi sono dilungato su queste citazioni perché in definitiva, come scrive Jonathan Franzen nella sua prefazione, I cento fratelli è una corsa sempre più veloce verso il decadimento e la morte. E Doug, letteralmente massacrato dai fratelli, si rivela essere il capro espiatorio, colui che con la propria morte ridà la vita. Non è forse possibile sostenere che ogni uomo muore della morte decisa per lui dal padre?
Romanzo folle e, a una prima lettura, senza senso. Ma quanto mi sarebbe piaciuto un film realizzato da Kubrick!

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