Ho visto “L’altro volto della speranza” di Aki Kaurismäki

Forse amo il cinema di Aki Kaurismäki proprio perché i suoi personaggi parlano poco e i loro silenzi sono più eloquenti di tanti discorsi. Il regista finlandese parte da dove aveva lasciato, da quel Miracolo a Le Havre (2011) in cui affrontava il tema dell’immigrazione clandestina. In quel film erano i più umili ad aiutare il piccolino nero a realizzare il suo sogno, raggiungere l’Inghilterra e ricongiungersi con i famigliari. Qui c’è un improvvisato ristoratore con i suoi collaboratori che nasconde e dà lavoro a Khaled, profugo dalla Siria. Il giovane è arrivato clandestinamente in Filnlandia e ha fatto subito richiesta di asilo politico per via della guerra ad Aleppo che gli ha distrutto la casa e ucciso i parenti. Ma la sua domanda è stata respinta e deve essere rimpatriato. Solo una sorella gli è rimasta, dispersa in chissà quale parte d’Europa e la sua ricerca diventa il problema numero uno per Khaled. Waldemar Wikström invece faceva il rappresentante di camicie. Abbandona la moglie, troppo sensibile alla bottiglia, e anche il lavoro. Vende campionario e magazzino e si gioca il ricavato a poker in una bisca clandestina. Vince e moltiplica la cifra, così si compra un ristorante malandato dove ha tre improbabili dipendenti. La nuova gestione stenta a decollare e Waldemar subisce i controlli di polizia, sanità e fisco. Nulla però gli impedisce di aiutare Khaked quando lo trova sporco e affamato vicino ad un cassonetto. Tutto il resto è da scoprire al cinema, soprattutto i momenti relativi alla gestione del locale che fanno sorridere in un film il cui tema è tremendamente serio.
Le traversie di Khaled dalla Siria verso il nord Europa, attraverso la famigerata rotta balcanica, sono solo raccontate e non hanno bisogno di immagini, che sono quelle che tutti conosciamo dai reportage giornalistici e televisivi.
Parafrasando la sua filmografia possiamo dire, dopo il miracolo (accade, massì una volta sola) resta solo la speranza (che concede un margine un po’ più lasco) individuale. Al resto dovrebbe pensare la politica, cosa che evidentemente (in tutta Europa) non riesce a fare.
Per Kaurismäki , come detto, parlano le inquadrature, più che i dialoghi, e le facce dei protagonisti, profugo Khaled a parte, tutte autenticamente finlandesi. E come in ogni suo film, la musica ha un ruolo preponderante e da colonna sonora si fa parte evidente nella narrazione laddove compaiono gruppi rock e blues composti da vecchi se non vetusti musicisti. Niente fisarmonica questa volta, come mi aveva piacevolmente abituato Kaurismäki, piazzandola anche solo in un angolo di una inquadratura in ogni suo film.
Orso d’argento alla Berlinale 2017 come miglior regista.

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