Ho letto “L’arte della fuga” di Fredrik Sjöberg

Con questo libro Johann Sebastian Bach non c’entra nulla. La fuga di cui si parla è un’altra e lo dirò dopo. Fredrik Sjöberg è un entomologo e birdwatcher svedese, oltre che giornalista e scrittore. Studia e colleziona mosche, di cui è uno dei massimi esperti, e ne ha parlato in libri precedenti. Un giorno si è imbattuto ad un’asta in un quadro di un pittore semisconosciuto, tal Gunnar Widforss (1879-1934). Ne è stato talmente colpito che avrebbe voluto comprarlo ma i rilanci di un collezionista americano hanno portato il prezzo al di sopra delle sue disponibilità. Così ha cominciato a interessarsi di Widforss, un acquerellista, scoprendo che dalla Svezia ha girato e dipinto per mezza Europa, prima di trasferirsi negli Stati Uniti dove è diventato il pittore ufficiale dei Grandi Parchi Nazionali. In Scandinavia ha continuato invece a rimanere sconosciuto.
La madre di Gunnar aveva avuto tredici figli… I nipoti, della mia generazione, erano molti ma nessuno si ricordava del pittore.
Sjöberg inizia una ricerca in patria, ricavando pochi aneddoti, qualche lettera e ritagli di giornale che qualche discendente aveva miracolosamente conservato. Già in Svezia Widforss si era dedicato ai temi della natura, dipingendo alberi e montagne, ma è giungendo negli Usa dove nei primi venti anni del secolo scorso si era sviluppato un forte interesse per il wilderness di Emerson e Thoreau che la sua pittura ha cominciato a decollare.
Tanto è vero che anche i quadri dipinti e disseminati in Europa, forse migliaia, per lo più venduti a poco prezzo o addirittura regalati, iniziarono a prendere la strada degli Stati Uniti, dove c’erano i collezionisti.
Così Fredrik Sjöberg si sposta negli Stati Uniti e attraversa California, Nevada, Arizona e Colorado per continuare le sue ricerche. Nasce una sorta di diario on the road che alterna le scoperte biografiche su Widforss a curiosità e osservazioni di viaggio. Come la storia dell’Isola di Catalina di fronte a Los Angeles, la nascita del chewing gum di William Wrigley, la carovana di cammelli che inaugurò la Route 66, l’avversione di Benjamin Franklin per l’aquila calva simbolo degli Stati Uniti (lui avrebbe preferito il tacchino…). Negli Stati Uniti scopre che il farmacista Carl Erik Haggart, capostipite dell’AstraZeneca, era il migliore amico di Widforss e con lui intratteneva una corrispondenza. E da quelle poche lettere la biografia del pittore prende forma.
Molte informazioni sono sparite per sempre alla sua morte, altre sono andate disperse o perdute nei settant’anni trascorsi da allora. Tutte quelle lettere salvate sul bordo della pattumiera sono solo la conferma che presto non resterà più alcuna traccia.
Sono lettere che raccontano il dove e il quando di una vita, ma raramente il perché. E nessuna lascia trapelare la paura, la solitudine, la malinconia del pittore. Che è stato essenzialmente un solitario con pochi amici, solo contatti epistolari con la mamma e con un unico ritorno in patria nel 1930. Per incontrare una bambina nata da un rapporto extraconiugale nove anni prima. Ecco la fuga di cui si parla nel titolo: Widforss era fuggito a gambe levate negli Stati Uniti dopo aver messo incinta una signora già sposata. Lo rivela una lettera rimasta custodita in famiglia e che doveva rimanere segreta. Alla fine Sjöberg porta alla luce la storia ma la riseppellisce per rispetto al pittore.
Banale e dozzinale tutto quanto. Mi torcevo sulla sedia come un verme e mi sentivo male per quell’unico stupido motivo di cui ero per caso a conoscenza di una trasgressione ormai da lungo tempo dimenticata. E questa conoscenza non faceva di me un uomo più saggio.
In onore di Gunnar Widforss l’agenzia National Park Service ha intitolato Widforss Trail una cima del Grand Canyon.

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