Ho visto “The Post” di Steven Spielberg

Gli americani hanno questa caratteristica. Combinano pasticci in casa loro e in ogni parte del mondo e poi ci fanno su un bel film. Un bravo regista, un cast stellare, immagini spettacolari e si autoassolvono lavandosi la coscienza. Come se non bastasse spesso si autoassegnano una bella statuetta. Gli spunti in tal senso non mancano mai, neppure oggi, ma la cinematografia sembra prediligere i mis-fatti del secolo scorso. I film sul giornalismo, da Quarto potere di Orson Welles (1941) in poi, fanno categoria a parte nel variegato mondo del cinema. Ci sono esempi a decine. Quest’ultimo lavoro di Steven Spielberg sancisce ancora una volta quanto contenuto nel Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, quello che tra l’altro garantisce la libertà di parola e di stampa. Il film racconta la battaglia intrapresa dal New York Times prima, dal Washington Post poi e infine da tutti i giornali insieme per far conoscere all’opinione pubblica quanto contenuto in un documento top secret, trafugato da un collaboratore del Pentagono, in cui si raccontano oltre trent’anni di attività statunitense in Indocina. In quelle settemila pagine emerge in tutta evidenza che la guerra in Vietnam è totalmente sbagliata e che finirà male per gli americani. Nonostante questo, quattro presidenti hanno continuato a mandare a morire migliaia di ragazzi. Nel 1971 il New York Times divulga una prima parte del contenuto del rapporto del Dipartimento della Difesa ma subito viene bloccato da un’ingiunzione della Corte Suprema. Il testimone, per così dire, viene raccolto dal Post, come veniva chiamato il quotidiano che qualche anno dopo avrebbe fatto esplodere lo scandalo Watergate. Spielberg con un ritmo incalzante racconta i concitati giorni di quella pubblicazione dal punto di vista dell’editore Katharine Graham (Meryl Streep) e del suo direttore Ben Bradlee (Tom Hanks), il clima in redazione, in tipografia e negli ambienti finanziari. Nonostante le minacce della Casa Bianca (è divertente come viene rappresentato il dispotico e vendicativo Richard Nixon) e il parere dei suoi stessi legali, il Post continua la sfida del Times in nome del popolo americano che ha il diritto di conoscere come stanno veramente le cose. Interessante è la metamorfosi di Katharine Graham, divenuta proprietaria del Post dopo la morte di suo padre e del marito, prima donna editore di un grande giornale. Inizialmente più che alle notizie è interessata alla vita mondana per recuperare consensi attorno al giornale in difficoltà finanziarie e costretto a quotarsi a Wall Street per restare a galla. Poi è lei che con uno scatto d’orgoglio decide di rischiare e di pubblicare i documenti. Un coraggio che viene premiato, prima dalle vendite e poi dalla sentenza della Corte Suprema che con verdetto 6 a 3, assolve il New York Times e il Post e sancisce l’inviolabilità del primo emendamento della Costituzione. La stampa deve servire i governati e non coloro che governano. Era il 1971. Sarà così ancora adesso? Il messaggio a Donald Trump è evidente.

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