Ho letto “La vedova scalza” di Salvatore Niffoi

Non avevo mai letto Salvatore Niffoi, nonostante le sollecitazioni di un amico sardo. Qualche settimana fa mi è capitato tra le mani La vedova scalza, che nel 2006 ha vinto il Premio Campiello. Scopro così lo scrittore barbaricino dalla narrazione forte e dal linguaggio che è una commistione tra italiano e sardo. Tuttavia la difficoltà di lettura per termini inusuali non respinge, anzi intriga e sollecita a capire, tanto che lo avvicina, a mio parere, per il sardo, alla ricerca linguistica che Vincenzo Consolo aveva fatto nei suoi scritti con il siciliano.
Via, anima mia, via da questo sciù sciù di fardette e gambali. Via, che non devi respirare questo alito di morte che s’infila tra le nari e scende nei polmoni col suo odore dolciastro di prugne e mirto.
La vedova scalza racconta di Mintonia Savuccu, sposa giovanissima a Micheddu e altrettanto presto rimasta vedova per l’uccisione a tradimento del marito, datosi alla macchia per l’accusa di banditismo.
“Mira Mintonia, chie a minore s’isposata, a ora e vezza no reposata! Chi troppo giovane si sposa, da vecchia non riposa!”.
L’espediente narrativo di Niffoi è una lettera che Mintonia, poi emigrata in Argentina e nel 1985 ormai prossima alla fine, fa pervenire a una nipote. E’ una sorta di memoriale che racconta tutti gli accadimenti della sua vita in Barbagia, dalla prima infanzia fino alla vedovanza e al successivo espatrio. Ogni capitolo della narrazione è concluso da versetti in sardo, come fosse un coro di una tragedia greca.
Mortu ana a Micheddu / irgannau che unu mannale / onco bos apergiana su cherveddu / a corfos de istrale.
Sono gli anni del ventennio fascista. Taculè è il paese inventato della Barbagia dove vivono le famiglie di Mintonia e Micheddu, amanti e promessi sposi fin da bambini. Lì dettano legge e imperversano il podestà e il comandante dei carabinieri.
I carabinieri, a Laranei e Taculè, tutti li consideravano minci morti, gente che si era arruolata perché ce l’aveva piccolo e voleva godere indossando una divisa. Chi s’infilava dentro una divisa di sbirro per procurarsi il pane da noi era considerato una merdedda, una cacada de pudda.
E, non ultimo tra i personaggi negativi, è l’infingardo parroco don Zippula che il giorno della prima comunione tenta di allungare le mani su Mintonia: “Anticrista! Bagassedda! Anticrista! Bagassedda!”. Politica e questioni personali si mescolano nella Sardegna di quegli anni, un luogo dove basta un nonnulla per sprofondare nell’aldilà: un bicchiere di vino in più, un’occhiata mala, uno sconfinamento di pascolo, un gregge mustrencato, una socca di cuoio, una femmina prinza, una parola di troppo, e tùnfete, il gioco è fatto.
Sono le leggi primordiali di quella terra. Amore e morte, balentia, tradimento, latitanza, vendetta. Mintonia costruisce bene la sua, dopo che ha asciugato le lacrime per la morte di Micheddu, ucciso dalla milizia. Si è istruita per conto suo, ha letto molto, Balzac, Tolstoj, Verga, Manzoni, Grazia Deledda. Ma il richiamo del sangue è più forte.
“Me lo portarono a casa un mattino di luglio, spoiolato e smembrato a colpi di scure come un maiale … Lo stesi sul tavolo di granito del cortile, quello che usavamo per le feste grandi, e lo lavai col getto della pompa … Pthù! Maledetti siano quelli che gli hanno squarciato il petto per strappargli il cuore con le mani e prenderlo a calci come una palla di stracci!”.
Dopo questo libro dovrò fare i conti con la letteratura sarda, a cui non mi ero mai avvicinato, tranne a Sergio Atzeni e al suo Il figlio di Bakunin, letto durante una vacanza a Piscinas non lontano da Guspini dove la vicenda si svolge.

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