Ho visto “Lucky” di John Carroll Lynch

Pare di vedere Travis camminare lungo una ferrovia abbandonata nel deserto del Mojave, ma sono passati 35 anni e quello era Paris Texas. Ora Harry Dean Stanton è giunto alla stazione finale, morto a 91 anni nel settembre 2017. Ma ha fatto in tempo a lasciarci questa chicca cinematografica, una specie di suo personalissimo testamento. Lucky è un film sulla vecchiaia e sull’approssimarsi della fine. Uno specchio per tutti noi se avremo la fortuna di arrivare a 90 anni. Non ha avuto problemi nell’esibire la sua nuda magrezza, ma ciò che più conta è che ha messo a nudo la propria anima.
Nel film diretto da John Carroll Lynch, Harry Dean Stanton interpreta praticamente se stesso, un vecchio di 90 anni che vive da solo nella periferia di una piccola città, probabilmente in Arizona (le immagini del deserto sono state girate nel Cave Creek Park).
Non è mai stato sposato, niente figli: “almeno che io sappia”. E’ in buona salute, la sua unica malattia è l’età. Fa ginnastica tutte le mattine, cammina molto, frequenta una caffetteria di giorno e un pub la sera. Tutti lo conoscono e lui conosce tutti. E’ benvoluto anche se ha un carattere spigoloso e non le manda mai a dire. Nel film non succede nulla: seguiamo Lucky nelle sue giornate, albe e tramonti, apparentemente inconcludenti. Caffè in continuazione, qualche drink e tante sigarette. Una banale caduta in casa, senza particolari conseguenze, lo avverte che la vita sta arrivando al capolinea. Si intromette in una discussione tra il suo amico Howard (uno splendido David Lynch) e un avvocato che gli sta facendo firmare una polizza sul ‘fine vita’. Incontra Fred, un veterano della marina (Tom Skerritt) che gli evoca ricordi della seconda guerra mondiale. E qui occorre dire che veramente Harry Dean Stanton ha prestato servizio sulla USS LST-970 durante la battaglia di Okinawa. Era cuoco, dunque un imboscato, da cui deriva il soprannome di Lucky, fortunato perché stava sottocoperta. Il momento più struggente del film è quando partecipa a una festa di compleanno di una famiglia messicana. Lucky è spaesato e un po’ fuori contesto, poi intona un brano popolare messicano, Volver Volver (1973) di Fernando Maldonado, a cui si accoda un trio mariachi. A parer mio il momento clou del film. Confesso che mi è scappata la lacrimuccia e mi emoziono ogni volta che lo rivedo.

A proposito di musica, se in Paris Texas Ry Cooder aveva firmato una delle più belle soundtrack della storia del cinema, Lucky è intessuto da cima a fondo con le note di un grande classico del folk americano come Red River Valley, proposto e ripreso in tanti modi, anche stirato e destrutturato. Per me è una piccola madeleine, un brano imparato da bambino quando iniziavo a suonare la fisarmonica. La versione italiana era La rumba del cowboy, risale agli anni ’40, incisa da Natalino Otto e orchestrata da Gorni Kramer.
Ma Elvis Kuehn che ha scelto le musiche per questo film non si è fermato lì e nulla ha lasciato al caso. Accanto ad alcuni brani mariachi ha inserito tanta roba pertinente alla storia. Come I Stole The Right To Live del folksinger Michael Hurley, le cui prime frasi sono assai significative:
I stole the right to live as if there was no time.
I stole the eyes of God as if those eyes were mine.
I took and did infuse a light that was to shine.
E poi ancora un classico sull’amicizia come I See A Darkness nell’interpretazione di Johnny Cash e, a chiudere la vicenda artistica (e umana) di Harry Dean Stanton, The Man In The Moonshine di Foster Timms, proprio sui titoli di coda mentre Lucky si allontana nel deserto.
Concludo dicendo che con sorpresa e grande piacere ho appreso che il doppiaggio è totalmente made in Turin, grazie alla Cooperativa ODS e alle voci di Carlo Valli, Donato Sbodio, Gianni Gaude, Vanessa Giuliani.

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