Ho letto “La canzone del ritorno” di David Trueba

Tutti conosciamo il finale. E non è un lieto fine. Curioso, questo racconto, perché conosciamo il finale, ma ignoriamo la trama.
E’ stata la mia prima lettura dell’anno e dico subito che è un libro straordinario. David Trueba è uno scrittore (e non solo) da seguire con attenzione. Avevo già letto, sempre con grande piacere e sano divertimento, Quattro amici (1999), Aperto tutta la notte (1995), Saper perdere (2008), tutti nella traduzione per Feltrinelli, e visto quel gioiellino di film atto d’amore nei confronti dei Beatles La vita è facile ad occhi chiusi (2013), titolo tratto dal testo di Strawberry Fields Forever: Living is easy with eyes closed…
La canzone del ritorno (2017) è ancora intriso di musica da cima a fondo, raccontando in prima persona la storia di un affermato musicista spagnolo, Dani Mosca, che compie un viaggio per riportare le spoglie del padre al villaggio da cui era partito.
Il mesto percorso è dilatato dal dialogo con il logorroico autista del carro funebre, un immigrato equadoregno, e dalle riflessioni del musicista. A poco a poco prende forma la sua intera vita: la famiglia, la scuola, la prima chitarra, le lezioni di musica, gli amici del suo gruppo rock, i primi successi, i dischi, i concerti, le tournée con tappe in posti impresentabili (Albacete, caga e vattene), in hotel inquietanti (Mi buttai sul letto dopo aver tolto la trapunta. I copriletti imbottiti degli hotel sono organismi viventi, una traccia inquietante di inquilini precedenti, una mappa sporca del passato che preferisco ignorare), le amanti occasionali, e poi le mogli e i figli.
Siamo visionari e ciechi al tempo stesso. Saggi e stupidi. Nasce da questo il malessere che ci accomuna, quel dubbio che ci fa piangere in una giornata grigia, svegliarci a mezzanotte o inquietarci quando l’attesa di una persona cara si prolunga. Forse nasce da lì la crudeltà smisurata e la bontà inaspettata degli esseri umani.
Lo si può leggere in vari modi. Con il filtro della musica, innanzitutto. Tutto è spiegato, in chiave spagnola ma non credo che da noi sia dissimile: le sessioni di registrazione, i discografici, i manager cialtroni e improvvisati, gli organizzatori di concerti, i momenti di esaltazione e quelli di crisi creativa. Dani si rammarica di non essere nella classifica dei migliori 100 musicisti spagnoli, sarò centounesimo cerca di consolarsi, ma è comunque soddisfatto del suo percorso perché dopo i dischi e i concerti sono arrivate le richieste di scrivere musica per cantanti e gruppi in voga. E’ il segno del successo e lui lo assapora a piccoli morsi, ben sapendo che il declino è sempre dietro l’angolo. Proprio dal mondo della musica arrivano alcune osservazioni di Dani Mosca che non posso non condividere. Ad esempio la critica neppure molto velata all’inflazionato metodo Suzuki, quella sorta di bolla musicale, con gli allievi stremati, senza tregua, una specie di conservatori improvvisati dove si torturavano i bambini affinché diventassero i futuri membri della sezione archi della Filarmonica di Berlino quando, in realtà, tutt’al più, avrebbero finito per conservare l’astuccio impolverato nell’armadio di una villetta a schiera. Certo, è un punto di vista, ma di uno che ha sgobbato sodo per arrivare al successo. Quella cosa chiamata successo ci cadde addosso quando non eravamo ancora preparati, ammesso che qualcuno possa essere coscientemente preparato a un simile incidente.
Il primo maestro di musica di Dani, che lo accolse tra i suoi allievi malvolentieri, diceva, a proposito dei concorsi, che “uno vince non per la sua genialità, ma per menomalità. Perché è meno male degli altri” e con questo mi viene da pensare a Sanremo…
Il protagonista è soprattutto compositore, non si vuole svendere agli arrangiamenti che seguono la moda né all’idiozia delle cover. Per Dani tutto viene riversato nelle canzoni:
sono una forma di biografia. Ci pianti i sentimenti e a quel punto cessano di essere solo tuoi, nascosti, intimi, diventano condivisi e direi addirittura superati. Noi musicisti creiamo canzoni dense di tenerezza e affetto per rimediare alla nostra testa bacata nella realtà, agli spropositi della nostra maniera di vivere.
Ci sarebbe molto altro da anticipare di questo magnifico libro, tra l’altro diviso in due parti, proprio come un lp, lato A e lato B. Lascio a chi avrà voglia di leggerlo (ripeto, lo consiglio!) fare con Dani un indimenticabile viaggio nel cuore profondo della Spagna, attraverso riflessioni sull’amore e sul valore dell’amicizia. C’è anche molto sesso: Ti vai a scopare una cameriera, è un classico, non ti pare troppo banale?, mi disse Carmela dopo non aver rifiutato il primo bacio. Il musicista che si fa una cameriera. Ho un grande rispetto per i classici, risposi. Ma gli amori veri sono due, Oliva (Dani smetterà di mangiare olive quando verrà lasciato, A volte addio è una maniera di dire ti voglio bene, scrissi per lei una canzone che non ha ascoltato quasi nessuno) e la giapponesina Kei che gli dà due figli, splendida sintesi tra occidente e oriente, Maya e Ryo. Sono loro, ormai grandicelli, a ricongiungersi con il padre al paese per la sepoltura del nonno. Lì lo attendono cerimonie degne di un vip quale lui non si ritiene ma in quel villaggio sperduto Dani Mosca è una celebrità e l’accoglienza mi ricorda quella del film argentino Il cittadino illustre. C’è l’amicizia con Gus e Animal, i componenti della sua band rimasti insieme fin dai tempi del complessino scolastico.
Da ultimo lascio l’intenso rapporto con il padre autoritario, conflittuale tutta la vita ma mai banale: A mio padre risultava risibile sentirmi dire che mi dedicavo a fare canzoni. Avanti, cercati un lavoro, figlio mio, e piantala di renderti ridicolo. E qui mi commuovo pensando a quando mio padre, non condividendo le mie scelte, mi diceva di smettere di giocare con la televisione e di cercarmi un lavoro serio.
La mano di mio padre aveva passato i suoi primi vent’anni a lavorare i campi e poi in guerra; la mia, in quello stesso lasso di tempo, si era dedicata a fare le seghe e a suonare la chitarra.
Ed è anche un libro sul decadimento fisico dei genitori. Al papà Dani Mosca si attacca quanto più la sua prestanza diminuisce, prestanza fisica che consisteva nel fare le scale due gradini alla volta e arrivare su prima di me, come se battermi fosse la cosa più importante della sua vita. E quando la malattia comporta l’invasione della sfera intima, quando nessuno rispetta più le tue manie, le abitudini, la tua maniera particolare di fare le cose, dall’igiene all’organizzazione della giornata. Ricorda un po’ Patrimonio, con Philip Roth alle prese con il lento declino fisico di suo padre Herman.
E al momento della dipartita, Dani non c’è, per questo si porta dentro l’assenza come una colpa: È difficile organizzare la vita, ma la vita a volte si organizza da sola in maniera delicata, con una logica che lascia attoniti, così perfetta da risultare emozionante. Ecco perché piansi in ritardo la morte di mio padre, in un aeroporto intasato di gente anziché accanto al suo letto, nell’intimità di quella stanza di ospedale.
Ricapitolando, Dani Mosca ritrova infine le radici in un mondo che non gli appartiene più dopo un viaggio che gli è servito più di mille sedute dallo psicanalista.

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