Ho letto “Il racconto del barista” di Ivan Doig

E’ crollata la stella polare del soldato (W. Shakespeare, Antonio e Cleopatra).
L’ho trovato sotto l’albero di Natale. Chi mi conosce sa bene come solleticare le mie curiosità letterarie. Sono felice di aver fatto la scoperta di Ivan Doig (1939-2015). Americano del Montana, tredici romanzi pubblicati tra il 1982 e il 2015, questo The Bartender’s Tale si colloca verso la fine della sua produzione (2012). Grazie a Nicola Manuppelli e a Nutrimenti arriva la prima traduzione in italiano. Spero che mi facciano conoscere presto gli altri.
Doig (figlio di un cowboy e di una cuoca) è stato un cantore della sua terra così come Kent Haruf lo è stato del Colorado.
Dunque Montana, in un luogo chiamato Gros Ventre, nella  Contea Two Medicine. Toponimi insoliti ma esistenti, ho controllato. E’ una regione di laghi, cascate, pascoli. In particolare vi si allevano pecore. A Gros Ventre c’è un bar, il Medicine Lodge, gestito da Tom Harry, un luogo diventato punto di riferimento di tutta la popolazione. Si va lì soprattutto a bere e per farsi gli affari degli altri. Tom è padre di Rusty, dodici anni, che vive con lui da soltanto quell’anno (è il 1960) perché, essendo stato abbandonato dalla madre in tenera età, è cresciuto dagli zii a Phoenix in Arizona. Un’infanzia difficile, sottoposto allo stalking da parte dei cugini.
Papà trasalì come faceva sempre quando approcciavamo l’argomento. “Rusty, è meglio per te se non dico nulla su tua madre… Quando una storia è finita non c’è modo di tornare indietro, capisci? E’ questo che è successo tra me e lei”.
Il bar è diventato la casa del ragazzino, quando esce da scuola passa il pomeriggio nel retrobottega da dove attraverso un’apertura per l’aerazione riesce a spiare, non visto, tutto quanto succede di sotto. Per lui, essendo minore, vige il divieto assoluto di entrare al bar nelle ore di apertura. Intanto padre e figlio iniziano a conoscersi veramente e ad affezionarsi. Rusty fa amicizia con Zoe, coetanea e compagna di scuola. I suoi genitori gestiscono una bettola dove vanno a mangiare anche i clienti del Medicine Lodge, perché nel locale di Tom si tracannano soprattutto birra e whisky con l’aiuto di qualcosa in salamoia giusto per stimolare la sete. Con l’arrivo delle vacanze estive Rusty e Zoe diventano inseparabili: pesca, cine, qualche gita con Tom quando il bar è chiuso. Ma soprattutto grandi spiate all’interno del bar che per entrambi diventa una vera e propria scuola di vita, grazie a una carrellata di personaggi incredibili: cacciatori, allevatori, minatori, ma anche ubriaconi, malfattori, tutta la fauna che può passare in un locale di una cittadina del West.
Quell’estate 1960 nella loro vita compare Proxy, che aveva fatto la taxi dancer in un precedente bar di Tom. La donna si è portata a Gros Ventre la figlia Francine, probabile frutto di una vecchia relazione avuta con Tom. Per il ragazzo è un piccolo trauma perché ora non riesce più a decifrare esattamente la vita del padre e il suo mondo assai complicato. Non mi piace l’espressione ‘romanzo di formazione’, ma si può dire che quei pochi mesi vissuti da Rusty a contatto con il bar segnano l’uscita dall’ingenuità dell’infanzia e il definitivo ingresso nell’età adulta, tanti e tali sono i fatti, anche drammatici, che accadono lì intorno.
Il racconto del barista è una storia avvincente, ben calata nell’atmosfera dell’epoca, con tanti dettagli letterari, musicali, politici (l’ammirazione verso quanto aveva fatto Franklin Delano Roosevelt, le aspettative circa la probabile ascesa alla presidenza da parte di John F. Kennedy), anche linguistici di quegli anni. Come nella Trilogia della Pianura di Kent Haruf, Ivan Doig ci porta in un’America rurale in cui riecheggia ancora l’eco dell’epopea del West, la frontiera e i ranch, ma guarda anche avanti, verso una crescita della working class. Un bel romanzo da cui ricavare un film.

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