Ho letto “L’eco di uno sparo” di Massimo Zamboni

L’eco di uno sparo non si quieta mai.
Mi sono tenuto le ultime cinquanta pagine per leggerle a Reggio Emilia, dove questo libro è stato vissuto, pensato, scritto. Massimo Zamboni è un personaggio molto conosciuto a livello musicale, essendo stato chitarrista e principale compositore dei CCCP e dei successivi CSI. Un musicista con i controfiocchi quindi. E sul suo orientamento politico non ci sono dubbi. Ha anche scritto delle cose e ha una bella penna. L’eco di uno sparo nasce da ricordi di famiglia, orecchiati nell’infanzia e poi inseguiti da adulto. Devo ancora premettere che ho saputo di questo libro guardando il documentario di Davide Ferrario Cento Anni in cui il regista ripercorre la storia d’Italia attraverso memorie individuali e collettive e quattro momenti significativi: 1917, 1922, 1974, oggi. Per il fascismo sceglie proprio la testimonianza di Zamboni e del suo libro, che è stato il frutto di una lunga e accurata ricerca.
Questa è la storia di mio nonno Ulisse e dei suoi sparatori che si spararono tra loro. Il racconto di ciò che ha innescato quei colpi in canna, e di ciò che è stato dopo. L’eco di uno sparo non si quieta mai.
Il 29 febbraio 1944, pochi mesi dopo la fucilazione dei sette fratelli Cervi, il nonno Ulisse, membro di un direttorio del fascio, viene ucciso dai Gruppi di Azione Patriottica. Zamboni si domanda da dove provenissero quei colpi: …chi li ha generati, dove sono andati a rimbalzare, che cosa hanno smosso, smurato, prodotto. Ho dovuto scovare tracce seminate e sepolte, frugare da dilettante negli archivi che tutto conservano e tutto confondono... Dice anche che tocca ai nipoti ricostruire le storie delle proprie famiglie, laddove nessuno ci ha mai pensato. Lui dolorosamente lo ha fatto, immergendosi nel ramo materno della famiglia e risalendo a due secoli prima. Una famiglia contadina agiata, padroni che con il passare delle generazioni hanno sempre difeso i proprio beni contro l’insorgere delle ideologie comuniste, anzi richiudendosi e accettando l’avanzare del fascismo. Sette fratelli maschi nella famiglia del bisnonno Massimo (da cui Zamboni prende il secondo nome di battesimo), come i Cervi, ma tutti fascisti.
L’autore intraprende una ricerca che lo porta indietro di generazioni nella sua famiglia, ramo materno, la famiglia B*. Fin nell’800. Bassa reggiana, fornitori di carne macellata per il Regio Esercito nella Prima guerra mondiale. Un bel business si direbbe oggi. Intanto il nascente bolscevismo è visto come il fumo negli occhi. Tutta la famiglia aderisce al fascismo. E anche solo inizialmente sono botte da orbi tra antagonisti che hanno visioni diverse verso la vita pur avendo la stessa cultura, con quegli animali che adorano entrambi, can, porc, vaca, nimèl. Nel ricostruire la storia della sua famiglia, Zamboni ci offre uno spaccato di quel mondo: il lavoro, i rapporti tra padrone e mezzadri, tra uomo e donna in un’epoca tipicamente maschilista ma in cui sono le donne a tenere ben salde le redini di casa. Sorvolo su tutto il periodo della guerra e su un dopoguerra che è durato tre-quattro-cinque volte tanto e forse non è mai finito.
Il 16 marzo 1961, dunque diciassette anni dopo l’uccisione di Ulisse, commissario politico del Fascio di Campegine, – siamo nei primi anni Sessanta quelli che porteranno l’Italia al boom economico – il gappista Rino Soragni, nome di battaglia vicecomandante Athos Muso, di professione macellaio, è assassinato da un compagno e amico che allora aveva partecipato con lui all’uccisione del bisnonno di Zamboni, tal Alfredo Casoli, durante la Resistenza comandante Robinson, di mestiere fabbro. Una vendetta consumata fredda per qualche incomprensibile motivo ma soprattutto perché ogni sparo da spari precedenti è generato e a sua volta genera spari, nell’instaurarsi di una catena senza fine.
Il sangue delle persone che simbolicamente si mescola con quello delle bestie, divinità totemiche del sistema emiliano, scrive ancora Zamboni, bovini, suini, parmigiano, salumi.
Di questa terra grassa ho imparato di più da questo libro che in ormai vent’anni di puntuali frequentazioni reggiane. Massimo Zamboni mi ha portato a spasso nella campagna reggiana e nella Reggio di oggi, figlia di quegli eventi. Spero che a lui, che ha scelto di stare dall’altra parte sconfessando l’educazione familiare, sia servito scriverlo.
Anche quest’anno, al 9 di marzo, sono tornate le cicogne ai loro nidi di Gavasseto.
Ma questa è già un’altra storia.

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2 risposte a Ho letto “L’eco di uno sparo” di Massimo Zamboni

  1. rossana scrive:

    Ottima recensione che fa venir voglia di leggere il libro, soprattutto a chi, come me, poco conosce la storia della sua terra, pur essendoci nata

    • Iris Ruozzi scrive:

      Ho letto con grande emozione il libro di Zamboni. Ti ringrazio molto di avermelo segnalato. Non solo ci tornerò sopra parecchio, ma ne parlerò con i miei amici, recuperando con loro memoria, eventi, valori. Il libro mi ha riportato (interpretandoli in profondità, verità e rispetto) a riconoscere i caratteri della (mia stessa) reggianità e anche, nella identificazione, a considerare particolari aspetti della mia personale vicenda umana e culturale. Sono abbastanza vecchia da ricordare perfettamente la maggior parte degli eventi di cui si parla, condividendo (nei miei limiti di bambina, ma intensamente) gli eventi, i caratteri, le ideologie, la lingua del mondo contadino; oltre, naturalmente, alla conflittualità dei valori che caratterizzava quegli anni, di cui ho piena consapevolezza e che identicamente Zamboni interpreta e riferisce.
      La tua recensione del testo (bella, puntuale, incisiva ma ricca di associazioni e suggestioni, rigorosa ma, sobriamente, commossa) coglie e valorizza, a mio avviso, oltre all’interesse storico della ricerca, la straordinaria onestà dell’autore che, passato dall’altra parte, costringe il lettore ad uscire dagli schemi per una visione più corretta degli uomini e delle azioni, dunque di noi stessi dentro la storia.
      Sono contenta che tu abbia segnalato così efficacemente il libro nel tuo blog: c’è bisogno di introdurre nella trionfante ciarlataneria in mala fede del nostro tempo qualche voce di timbro onesto. Iris

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