Ho letto “Il sistema periodico” di Primo Levi

…e ci spiegarono che il fascismo non era soltanto un malgoverno buffonesco e improvvido, ma il negatore della giustizia.
Non è mai troppo tardi per avvicinarsi a un grande libro. Primo Levi era per me quello di Se questo è un uomo, La tregua, La chiave a stella. Altro non avevo letto. Poi la ricorrenza del centenario della nascita e le iniziative che ha generato, molte delle quali basate su rilettura e trasposizione teatrale di questo libro. Così sono giunto ad assistere allo spettacolo del TPE basato sui due racconti minerali, Mercurio e Piombo, nell’ambito del progetto “Primo Levi a teatro”. Così è scoccata la scintilla e ho cercato Il sistema periodico (1975), quinto libro della produzione letteraria di Levi. Proprio Mercurio e Piombo sono gli unici racconti di fantasia tra i 21 dedicati agli elementi del sistema periodico e quindi non autobiografici.
Nel complesso è un libro molto originale, un memoir che trae spunto dalla vita professionale di chimico: Primo Levi abbina ogni elemento a un aspetto della sua vita lavorativa, prima e dopo la guerra ma finanche dentro il laboratorio chimico del lager di Auschwitz. Unica eccezione è il primo racconto, Argon, incentrato sulla sua infanzia, dove  si incontra la famiglia e la comunità degli ebrei piemontesi con tanto di sfumature linguistiche. Antenati che Levi paragona ai gas rari: Nobili, inerti e rari: la loro storia è assai povera rispetto a quella di altre illustri comunità ebraiche dell’Italia e dell’Europa. Lo scrittore scava nell’etimologia dei cognomi e di parole tuttora in uso nel dialetto torinese. Vi si nota tutta la sua deferenza verso quel mondo passato che tratta però con affettuosa ironia. Parlando di uno zio scrive, ad esempio: La canna non gli serviva per appoggiarsi (non ne aveva bisogno), bensí per rotearla giovialmente in aria, e per allontanare dal suo cammino i cani troppo insolenti; come uno scettro, insomma, per distinguersi dal volgo.
Appare poi fin da subito l’ostilità al fascismo e l’elogio del diverso, il racconto è Zinco in cui descrive la prima esercitazione di laboratorio in università: Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale.
Gli anni giovanili sono tutto sommato positivi, nonostante le leggi razziali, fino alla laurea e al primo lavoro. In Ferro Primo Levi scopre la montagna e le escursioni impegnative grazie ad un amico: non valeva la pena di avere vent’anni se non ci si permetteva il lusso di sbagliare strada.
Poi i primi lavori, come quello all’Amiantifera di Balangero, il racconto è Nichel. Il suo secondo lavoro da chimico, Fosforo, è in una fabbrica che produce estratti ormonali. Lì avviene il primo innamoramento, per una collega già fidanzata e che si sposerà. Per lui è una delusione: la mia incapacità di avvicinare una donna era una condanna senza appello, che mi avrebbe accompagnato fino alla morte, restringendomi ad una vita avvelenata dalle invidie e dai desideri astratti, sterile e senza scopo.
Oro e Cerio sono gli unici racconti che trattano la sua cattura da partigiano e l’internamento ad Auschwitz. Su questo argomento lo scrittore rimanda alle sue pagine più note e celebrate.
Dopo la guerra seguono racconti, anche gustosi, sulla libera professione, sulla difficoltà di mettersi in proprio e di vivere di analisi per conto terzi in laboratori improvvisati: Le grane, tu lo saprai, non vengono al galoppo, come gli Unni, ma zitte, di soppiatto, come le epidemie. Poi finalmente arriva il lavoro alla fabbrica di vernici Siva in cui resterà fino alla pensione. In un frangente entra in contatto con un’azienda tedesca il cui direttore era stato il capo del laboratorio chimico di Auschwitz. Tra i due inizia una corrispondenza privata che in breve farà emergere i rimorsi del chimico tedesco. Vanadio è un in certo senso il racconto che salda il cerchio tra la sua attività lavorativa e la tormentata storia personale.
Imperdibile infine è l’appendice con un’intervista di Philip Roth a Primo Levi in cui si evidenzia l’ossessione per il lavoro da parte dello scrittore torinese: il bisogno del «lavoro ben fatto» è talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico.

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