Ho letto “Nottetempo, casa per casa” di Vincenzo Consolo

Nel vaporar della terra, nel tremolar dell’aria, nella sospensione assorta, trovano varco i sogni, le apparizioni, i sortilegi, i suoni di campani, di zufoli lontani, i fischi sinistri sui binari. 
Nottetempo, casa per casa si può leggere in vari modi, a ciascuno il suo. A me, chiusa l’ultima pagina, vien voglia di tornare indietro e di ripercorrerlo tutto. Vincenzo Consolo è così, un coacervo di stimoli culturali che scappano in ogni direzione, e mi dispiace di aver incontrato i suoi libri molto oltre la mia senescenza. Poco mi manca per terminare di leggere le sue opere e Nottetempo mi è rimasto tra le mani come un gioiello che si incastona dentro i miei due, brevi, soggiorni a Cefalù.
Viaggio dentro e attorno alla città arabo-normanna oppure romanzo storico (aborro il termine “di formazione”), quest’opera di Consolo è suddivisa in dodici capitoli che hanno come filo conduttore la figura del giovane Petro Marano e sullo sfondo gli eventi dei primi anni Venti del secolo scorso.
Inizia con il padre, in una notte di luna piena alle prese con il male catubbo, qui inteso come luponario o licantropo, ma più in generale sta a indicare un malessere sconosciuto, ferito da parte a parte dentro il cuore dalla lama d’una pena che non sorgeva da causa, che non aveva nome. Petro lo segue, lo protegge tutta la notte, finché all’alba non si placa.
Ma al centro del romanzo c’è la figura di Aleister Crowley (1875-1947), personaggio incredibile, inglese, mediocre scrittore e artista, profeta satanista, approdato a Cefalù nel 1920 insieme alla sua corte di seguaci. Si installa in una villa appena fuori città che prende il nome di Abbazia di Thélème. Lì si adora la Bestia e si fanno pratiche indicibili. Incuriositi dalla novità alcuni abitanti si avvicinano alla comune: sotto gli occhi il corteo di forestieri più strani, stravaganti che mai s’erano visti in Cefalù, mai certo in Palermo, mai in Siracusa o Taormina. Restarono taciti, incantati.
Come il barone don Nené Cìcio, scapolo impenitente e ammiratore di D’Annunzio il Poeta, il Comandante, il Reggente di Fiume, il divino Gabriele, inimitabile però in due faccende, nel poetar sublime e nello sfizio basso, vile, in quella vastasata vergognosa di provar femineamente…
Oppure come il giovane pastore Sebastiano Castiglia, detto Janu, amico d’infanzia di Petro e innamorato della sorella Lucia, ora ricoverata per turbe psichiche. Janu viene irretito su una spiaggia da una bionda straniera nuda, Cypris, adepta di Crowley, e quindi arruolato nella setta di Thélème per la sua evidente virilità. Temeva, per la stranezza della cosa, qualche tranello, una mala accianza. E pensò anche in un momento che fosse quella una femmina rapita e abbandonata là da marinai, corsari.
Petro invece è attratto dal movimento sindacale e dalle idee socialiste e si ritrova a Palermo al centro di una manifestazione in favore delle donne lavoratrici dove viene bastonato. Di ritorno a casa scopre che don Cìcio ha mandato i suoi servitori a devastare la casa e minacciare i famigliari di Petro. È un fervente fascista e ha in sospeso questioni di eredità con la famiglia Marano.
Intanto all’Abbazia, durante un’orgia con la setta in preda al delirio per le droghe, muore la figlioletta di pochi giorni di Aleister e della sua concubina. Qualche tempo dopo l’inglese vestito come un gentiluomo in villeggiatura entra nella cattedrale ed è affascinato dal Pantocratore. Nel frattempo i carabinieri perquisiscono il suo tempio. Nel 1923 sarà poi espulso dall’Italia.
Il romanzo si conclude con Petro che fallisce un attentato contro la casa del barone, fugge a Palermo e si imbarca per la Tunisia insieme ad altri uomini di idee socialiste. Si ripromette di usare la scrittura per esprimere le proprie idee e cercare di migliorare l’Italia. Dice: “Non so adesso… Adesso odio il paese, l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… Odio finanche la lingua che si parla…”
Questa è la trama per sommi capi e mentre scrivo mi accorgo di quant’altro resta fuori: il Mandralisca col ritratto d’un ignoto marinaio, l’Osterio Magno, il Lavatoio Medievale, la Rocca, finanche Campofelice, Buonfornello, Caltavuturo, Sclafani, Cerda e la Targa Florio, oggetto di un capitolo che ho voluto subito approfondire.
Arrivarono ai tornanti della Cerda col sole alto, folgorante sopra il giallo infinito delle stoppie, sopra le pezzature rossigne della sulla, l’azzurro tremulo del lino, giù sul verde piano. Al luogo del TRAGUARDO – XIIa TARGA FLORIO erano transenne, palchi, tribune con pinnate pennoni gonfaloni bandiere impavesate, reclami di BENZINA SUPERIORE LAMPO, PNEUS PIRELLI, ISOTTA FRASCHINI… 

Ma queste sono considerazioni personali. Lì mi sono spinto da Cefalù, ho visto i campi di sulla nel loro massimo splendore, ho visto i ruderi della mitica corsa automobilistica e ho cercato a Cerda il famoso ristorante di carciofi che il vate della ristorazione popolare per camionisti aveva decantato in tv. Non ho sbagliato, ma questa è un’altra storia e tutto il resto è poesia.
Dalla terra nasce ogni terraglia, dal fuoco nasce, dall’aria, dall’acqua, nasce ogni forma dall’informe, dal miscuglio l’ordine, la bellezza dal bisogno, l’armonia dal necessario. Amore e pazienza muovono il mondo, muovono mano, intelligenza, creano il piano e il fondo, il pieno e il vuoto, il concavo e il convesso.

Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, 1933 – Milano, 2012) 

Nottetempo, casa per casa (1992)
Lunaria (1985)
L’olivo e l’olivastro (1994)
La mia isola è Las Vegas (2012)
Retablo (1987)
Esercizi di cronaca (2013)
Lo spasimo di Palermo (1998)
Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976)
Le pietre di Pantalica (1988)

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