Ho letto “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio

Il ricordo del suo passaggio doveva bastare a riempire una intera vita. Le amanti dovevano rimaner fedeli in eterno alla sua infedeltà. Questo era il suo sogno orgoglioso.
Il motivo per cui improvvisamente mi sono dedicato alla lettura di D’Annunzio l’ho spiegato dopo aver letto L’innocente (1892), secondo romanzo della Trilogia della Rosa. Allora ho cercato questo, che è il primo della serie. Sono lieto di questa scelta casuale perché se avessi rispettato l’ordine di scrittura da parte del “Vate” dopo Il piacere mi sarei dedicato ad altro. Non so se leggerò il terzo della trilogia, Il trionfo della morte. Questa digressione già implica una mia stroncatura: il libro in questione mi ha di molto annoiato. Scritto a Francavilla a Mare nel 1888 e pubblicato l’anno dopo dai Fratelli Treves (triste la storia della casa editrice milanese, fatta chiudere nel 1939 per le leggi razziali e rilevata da Garzanti…), Il piacere è il ritratto di una società decadente e materialista.
Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta è il tipico nobile italiano ottocentesco: un po’ artista, intellettuale, comunque nullafacente dalle buone rendite, frequentatore di circoli e salotti romani, aduso agli incontri amorosi. L’ultimo giorno dell’anno 1896 attende in casa l’ex-amante Elena Muti che ha appena rivisto dopo quasi due anni. Come in un flashback rivive con la memoria alcuni fatti della storia. Intanto cresce l’attesa per il nuovo incontro.
L’ansia dell’aspettazione lo pungeva così acutamente ch’egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale.
L’incontro non va come Andrea aveva sperato, Elena seppure attratta dal conte vuole fuggire subito. Successivamente D’Annunzio mentre ripercorre la storia del casato di Sperelli fa l’apologia della nobiltà e affonda il coltello verso la democrazia che si va diffondendo: Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte. Ci sarebbe da chiudere il libro, ma vado avanti ugualmente.
Sperelli e la Muti continuano a vedersi frequentando feste e ricevimenti di amici comuni per alcuni mesi. La donna è volubile e il loro rimane un semplice idillio fino a che lei annuncia la sua prossima partenza da Roma. Il giovane allora si dedica al suo passatempo preferito e che non ha mai cessato neppure durante la relazione con Elena, ovvero la seduzione.
A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch’egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.
Così capiamo di che tipo d’uomo si tratta, per D’Annunzio è quasi come compilare un manuale dell’abbordaggio e della depravazione nella cosiddetta società elegante. Lo scrittore dipinge splendidamente caratteri e ambienti, i famosi palazzi romani, e atmosfere. Va da sé che in quegli anni le questioni d’onore andavano trattate e concluse con un duello. È così che Andrea Sperelli rimane gravemente ferito in un duello con il marito di Elena. Costretto a trasferirsi per la convalescenza a Francavilla nella villa di una cugina, conosce Maria Ferres, moglie del ministro plenipotenziario di Guatemala e non appena è ristabilito ricomincia con lei una corte pressante. L’amore della donna verso Sperelli non si palesa subito però tiene un diario a cui confida i suoi turbamenti. Le schermaglie continuano fino a quando torna il diplomatico e la famiglia si trasferisce.
Tornato a Roma Andrea Sperelli riprende la vita dissoluta di sempre. Incontra nuovamente Elena e la passione si riaccende ma contemporaneamente ha gioco facile con Maria che prima di partire gli si era concessa. Insomma come tanti uomini Andrea Sperelli non rinuncia a tenere il piede in due staffe: Ciascuno di questi amori portò a lui una degradazione novella; ciascuno l’inebriò d’una cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una qualche particolarità e sottilità del vizio a lui ancóra ignota. Egli aveva in sé i germi di tutte le infezioni. Corrompendosi, corrompeva.
Certo non si può dire che Gabriele D’Annunzio non scriva bene. Come ho già detto, ad una certa noia per tutte queste schermaglie amorose – in realtà ci ho visto più egoismo, narcisismo parossistico, desiderio di possesso che non ricerca del piacere – fa da contraltare una scrittura finissima e affascinante per certe sfumature linguistiche ottocentesche e poi la descrizione di un’aristocrazia in disfacimento (ma ci vorranno ancora alcuni decenni).
Il possesso materiale di quella donna così casta e così pura gli parve il più alto, il più nuovo, il più raro godimento a cui potesse egli giungere; e quella stanza gli parve il luogo più degno ad accogliere quel godimento, perché avrebbe reso più acuto il singolar sapore di profanazione e di sacrilegio che il segreto atto, secondo lui, doveva avere.
Entrambi i libri di cui ho scritto furono altrettanti film del periodo del cinema muto, L’innocente (1911) diretto da Edoardo Bencivenga, Il piacere (1918) regista Amleto Palermi. L’innocente venne poi trasposto nel 1976 da Luchino Visconti, interpreti Giancarlo Giannini, Laura Antonelli, Rina Morelli, Massimo Girotti. Occorrerà vederlo.

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