Ho letto “Le parole sono pietre” di Carlo Levi

Lo spunto per cercarlo mi è arrivato ancora una volta leggendo un libro di Vincenzo Consolo, nella fattispecie Cosa loro. Poi mi sono accorto di averne una copia in casa da molto tempo, una ristampa del 1962 della prima edizione che era datata 1955. Le parole sono pietre è una sorta di reportage sulla Sicilia ricavato da tre viaggi che Carlo Levi aveva compiuto tra il 1952 e il 1955. Peccato però non aver trovato l’edizione più recente che proprio di Consolo ha la prefazione.
Dunque, Carlo Levi è un viaggiatore di quelli che piacciono a me, come vorrei essere io, che non si fermano alle apparenze, che vogliono scavare a fondo, conoscere da vicino fatti e persone, facendosi trasportare dalle circostanze, sempre pronti a deviare dall’itinerario prestabilito. La Sicilia, poi, deve essere proprio visitata e raccontata così.
Il primo racconto narra il ritorno dell’allora sindaco di New York Vincent Impellitteri al paese natale, Isnello, nell’attuale Parco delle Madonie, secondo sindaco italo-americano dopo il mitico Fiorello La Guardia. All’epoca scrittore già molto conosciuto (Cristo si è fermato a Eboli è del 1945), Carlo Levi è al seguito della Pontiac di Impellitteri insieme ad altri giornalisti e fotografi italiani e americani. La sua non è una semplice cronaca politica fatta di incontri e momenti ufficiali. Nel racconto descrive l’impatto dell’evento sulla popolazione. Questo viaggio per gli Isnellesi è una favola, e lo resterà, nel tempo, senza averlo voluto né preveduto: la nascita della Fortuna, la favola dell’America, dell’altra faccia del mondo. Naturalmente c’è chi gli chiede denaro per la scuola o per la fanfara, c’è chi millanta parentele e discendenze. Gli striscioni “Welcome Impy” si sprecano. Carlo Levi, ritenuto personaggio importante, è assediato con le richieste più strane. Rientrando a Palermo ha il vicesindaco come compagno di viaggio. – Lei ci crede a quelle fandonie? La mafia non esiste, è una leggenda. La mafia non c’è: se ci fosse sarebbe una bella cosa, sarei mafioso anch’io.
Con la mafia Levi si scontra eccome nel secondo viaggio, a Lercara Friddi (il paese di Lucky Luciano), a vedere le miniere di zolfo. Là avrei incontrato davvero un’altra faccia del mondo, dei mostri feudali, di un tempo remotissimo e incredibile, e tuttora vivi oggi, e in lotta feroce coi magri zolfatari. Lì era accaduto che un ragazzo, un caruso di diciassette anni, Michele Felice, che lavorava alla miniera era morto schiacciato da un masso. Ai minatori che avevano sospeso il lavoro per soccorrerlo viene decurtata la paga. È la gocciolina che fa traboccare il vaso e i minatori entrano in sciopero ad oltranza. Possiamo immaginare l’esito anche senza un Ken Loach che lo racconti in un film. Carlo Levi dapprima incontra i maldisposti proprietari di miniere, sempre assistiti da guardaspalle e carabinieri. I cinque carabinieri dagli inverosimili baffi neri erano ancora peggio disposti, e parevano desiderosi di indagare a fondo, e malevolmente, su di noi. Poi riesce ad arrivare alla zolfara per incontrare i minatori dai volti fieri, felici di essersi scoperti come esseri umani e liberi, sicuri di vincere.
Il terzo viaggio è a Sciara, per farci conoscere la storia di Salvatore Carnevale, bracciante e sindacalista, fondatore della locale sezione del partito socialista, che aveva difeso quei contadini più vittime che beneficiari della Riforma agraria del 1950. Nel 1955 fu assassinato dalla mafia. La sua storia avrebbe poi ispirato il film Un uomo da bruciare (1962) di Valentino Orsini con Gianmaria Volonté. In quell’occasione Carlo Levi incontra la mamma di Salvatore, Francesca Serio, splendida figura di donna e di madre, che raccolse il testimone del figlio nel combattere la mafia per il resto della vita.
Ma la risposta di Francesca (all’ingiustizia) non è quella anarchica e individuale che arma la mano del brigante e lo spinge al bando, al rifiuto, al bosco: è una risposta politica, legata all’idea di una legge comune che è un potere a cui ci si può appoggiare, un potere nemico del potere: il Partito. Illuminante, e ingenuo diremmo oggi! Cinque giorni prima della morte Salvatore era stato minacciato da un mafioso, racconta Francesca a Carlo Levi, a cui aveva risposto, chi uccide me uccide Gesù Cristo, sapendo che la ‘sua’ chiesa (il sindacato) sarebbe comunque rimasta in piedi.
…le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre, dice Francesca Serio a Carlo Levi, una frase che ancora oggi ha un impatto formidabile.
Ma non sono solo questi tre episodi a comporre un libro straordinario. Levi li connette tra loro con altre visioni della Sicilia (e della Lucania ‘sua’ e di Rocco Scotellaro), a Palermo come ad Aci Trezza a Giarre a Bagheria, da cui emerge l’arretratezza di una regione ancora feudale.

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2 risposte a Ho letto “Le parole sono pietre” di Carlo Levi

  1. Enza scrive:

    Linda recensione. Linda nel senso di bella in spagnolo e limpida in italiano.
    Ritengo la prosa di Levi una delle più eleganti del nostro novecento. Intellettuale dagli interessi molteplici, è stato un testimone animato da una forte passione civile. Che è poi il frutto della sua passione per la verità. Consolo , forse non a caso, l’ha condotto a questo libro. Altro romanzo che merita di essere letto e che ho trovato di una fedeltà impareggiabile agli eventi raccontati, di per sè profezia sulla configurazione della nascente repubblica italiana, è L’orologio.

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