Ho letto “Ritorno a Baraule” di Salvatore Niffoi

Ma lei Johnny Guitar l’ha mai sentita nella versione degli Sciedovs, che in italiano sarebbero le Ombre? Dovrebbe ascoltarsela, è la musica languida del serpente, la musica degli amori perduti.
Carmine Pullana torna al suo paese, Baraule, dopo tanti anni di assenza. Nel continente è diventato un chirurgo famoso. Salvatore di bambini, a cui apre il torace e guarisce il cuore. Una celebrità. Ora torna da vecchio e malato per saldare i conti con la sua infanzia, anzi proprio con il mistero della sua nascita sulla quale si sono sempre concentrati molti dubbi e soprattutto gli scherni dei suoi paesani. Per questo motivo era emigrato. Che cosa è accaduto una certa notte, quando appena nato era stato trovato in mare che respirava appena? L’aveva raccolto un pescatore, portato a sua moglie e poi venduto a una coppia barbaricina facoltosa che non poteva avere figli. Carmineddu era stato cresciuto da signore, fatto studiare e mandato all’Università. Aveva una stanza tutta per sé come la navata di una chiesa, piena di libri e di riproduzioni di opere d’arte, anche l’Adorazione dei Magi di Andrea Mantegna. Per tutta la vita ha pregato Dio di fargli scoprire un giorno chi erano suo padre e sua madre, senza ascoltare le malelingue di paese e i lazzi dei compagni: “Bruttu burdu! Izzu de chentos babbos e de una mama sola! Izzu e nisciunu! Ma non lo sai, ah, che sei unu izzu e bagassa? Unu izzu de mama sola e de chentos babbos, ses; unu izzu e nisciunu!”
Sessanta e più anni dopo, il tempo è scaduto. Tossisce, sputa sangue e il male incurabile ha emesso la sua sentenza. Ora deve sapere. Come in un doloroso pellegrinaggio torna a Baraule a cercare vecchissimi testimoni dei fatti di quella notte o comunque qualcuno che ne tramandi la memoria. Prende casa in paese e va per i borghi dintorno a cercare chi di volta in volta gli viene indicato come qualcuno che sa qualcosa: preti, suore, pescatori, contadini, si reca perfino in un manicomio criminale.
La prima cosa che Carmine Pullana vide quando arrivò a Baraule fu una vecchia che salutava tutti quelli che passavano toccandosi i genitali imbrattati di argilla rossa. Se ne stava sopra una montagnola di sabbia, ululando come una cagna mestruata dal mal di vivere.
Scoprendo il mistero delle sue origini, Carmine Pullana ricompone, attraverso i ritratti di tanti uomini e donne (grandi figure femminili!) incontrati, il mosaico della propria terra, aspra, selvaggia, arcaica, pastorale, ancora legata a riti e tradizioni antiche. Sangue, sesso, dolore, lacrime. Una Sardegna costiera inventata nei toponimi – Baraule, Pramas, Galusì, Lerizori, Curis, com’è nello stile dei racconti di Niffoi – ma tanto più reale del vero. No, Carmineddu non era figlio di Gantine Pullana e donna Carmela Navalis ma il frutto dell’amore tra Sidora Molas e Bertu Mazza che, pazzo di gelosia e convinto che la sua amata lo avesse tradito, l’aveva massacrata senza pietà lanciando il neonato in mare. Questo, in cuor suo, l’aveva sempre saputo.
Ma è giunto il momento di ripartire: Masticando sangue e lacrime, Carmine Pullana puntò la barra a sud, verso l’isolotto di Ferrulais, dov’era nascosta la porta dell’inferno.
Salvatore Niffoi possiede una scrittura potente in cui la lingua sarda si impone con forza in mezzo all’italiano e non necessita di traduzione, come già mi era accaduto di sottolineare dopo aver letto La vedova scalza (2006) che ha preceduto di un anno questo romanzo.

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