Ho letto “Trionfo della morte” di Gabriele D’Annunzio

Ancóra una volta, come tante altre volte, i due amanti divennero l’uno contro l’altra ostili. Ciascuno dei due si sentiva ferire dall’ingiustizia del sospetto e si ribellava, interiormente, con una collera sorda.
Avevo detto che dopo Il piacere e L’innocente non avrei più letto nulla di D’Annunzio. Ho voluto invece completare la  lettura della cosiddetta trilogia dei romanzi della Rosa, di cui questo è l’ultima puntata. Scritto tra il 1889 e il 1892, fu pubblicato nel 1894. A volte mi chiedo perché leggere D’Annunzio oggi. Poi mi trovo davanti a pagine addirittura sublimi in quanto a scrittura. Almeno in tre occasioni mi sono reso conto di aver speso bene il tempo per leggerlo, tutte nella seconda metà del romanzo, per altro articolato in sei libri distinti.
Ritirati nel loro eremo abruzzese per tre mesi, sulla costa teatina di San Vito Chietino, Giorgio Aurispa e la sua amante Ippolita Sanzio, assistono a un pellegrinaggio alla Madonna dei Miracoli di Casalbordino. Lo spettacolo è allucinante e macabro: centinaia di disperati approfittano del pellegrinaggio e si sottopongono alle pratiche più degradanti, ostentando le loro deformità per chiedere l’elemosina. Nulla a che vedere con la carità cristiana. Il clima di spensieratezza tra i due amanti ne esce fortemente minato. È il Libro Quarto (La vita nuova).
Riti di religioni morte e obliate vi sopravvivevano; simboli incomprensibili di potenze da tempo decadute vi rimanevano intatti, usi di popoli primitivi per sempre scomparsi vi persistevano trasmessi di generazione in generazione senza mutamento.
Questo momento segna il distacco di Giorgio Aurispa dalla sua terra, incapace ormai di rintracciare le proprie radici, ossessionato dallo spettacolo terribile offerto dalle sue genti. Merita riportarlo quasi per intero: …tutti i vizii turpi, tutti gli stupori; tutti gli spasimi e le deformazioni della carne battezzata, tutte le lacrime del pentimento, tutte le risa della crapula; la follia, la cupidigia, l’astuzia, la lussuria, la frode, l’ebetudine, la paura, la stanchezza mortale, l’indifferenza impietrita, la disperazione taciturna; i cori sacri, gli ululi degli ossessi, i berci dei funamboli, i rintocchi delle campane, gli squilli delle trombe, i ragli, i muggiti, i nitriti… le danze oscene delle saltatrici, le convulsioni degli epilettici, le percosse dei rissanti, le fughe dei ladri inseguiti a traverso la calca; la suprema schiuma delle corruttele portata fuori dai vicoli immondi delle città remote e rovesciata su una moltitudine ignara e attonita…
Nel Libro Quinto (Tempus destruendi) Giorgio è sempre più attratto dal verbo di Zarathustra, dal Superuomo goethiano, tuttavia proprio in questo capitolo ci sono alcune delle pagine più fresche e belle del romanzo. Giorgio e Ippolita assistono, rimanendone affascinati alla festa per la fine della mietitura: I canti dei mietitori e delle spigolatrici si alternavano, dall’alba al vespro, giù per i fianchi della collina feconda. I cori maschili celebravano, con una veemenza bacchica, la gioia dei larghi pasti e la bontà del vino annoso… Ma i cori feminili si prolungavano in cadenze quasi religiose, con una dolcezza lenta e solenne, rivelando la santità originale dell’opera frumentaria…
Indimenticabile anche la descrizione della Costa dei Trabocchi. Lo sciacquìo fievole della risacca, simile al romor linguale d’un gregge che si disseti, – il gran tuono subitaneo del fiotto gagliardo che sopraggiungendo dal largo urta e schiaccia l’onda rifratta dalla riva… La prossima volta che sarò al mare ci farò caso e ascolterò il rumore della risacca simile a quello di un gregge che si abbevera. Questi non sembrano i pensieri di un uomo che sta accarezzando l’idea di buttarsi dal dirupo della ferrovia che passa lungo la costa portando con sé la propria donna. Cosa che avverrà puntualmente nel Libro Sesto (L’invincibile).
Ricapitolando, Giorgio Aurispa, ricco abruzzese di Guardiagrele (Chieti), colto e raffinato, vive a Roma dopo aver lasciato la famiglia, della quale ha rinunciato a una futura eredità in virtù del lascito dell’affezionato zio Demetrio, morto suicida. Ha di che vivere agiatamente di rendita. La fine dello zio lo affascina e intravvede per sé una morte simile. Intanto ha una relazione di grande erotismo con una donna sposata, Ippolita appunto, che ha un matrimonio difficile e spesso si allontana dal tetto coniugale.
Quest’uomo sagace, pur avendo la certezza che tutto è precario, non poteva sottrarsi al bisogno di cercare la felicità nel possesso di un’altra creatura.
Il Libro Primo (Il passato) ci presenta la loro relazione, sia a Roma, dove insieme assistono al suicidio di un uomo, che nel corso di un sereno fine settimana passato in un albergo ad Albano Laziale. Nel Libro Secondo (La casa paterna) Aurispa raggiunge la famiglia a Guardagrele, borgo medievale alle pendici della Maiella, dove trova la mamma disperata. Il padre ha una relazione con un’altra donna e sta dilapidando il patrimonio di famiglia con la complicità dell’altro figlio Diego. Giorgio si lascia circuire dal padre firmandogli una cambiale per onorare i suoi debiti. La visione del letto di morte dello zio Demetrio lo avvicina ancora di più all’idea del suicidio.
Si rifugia così a San Vito, sulla costa adriatica, dove prende in locazione una casa rurale con vista mare, accudito da una famiglia di contadini, Libro Terzo (L’eremo). Con Ippolita avvia uno scambio epistolare. La vita di campagna sembra rinfrancarlo.
Nell’aia contigua stava coricato un bove grigio, enorme; che scoteva le orecchie e la coda placidamente ma incessantemente contro gli insetti molesti. Le galline intorno razzolavano. Poco oltre, un altro ruscello attraversava il cammino. Rideva: tutto crespo, ilare, vivido, limpido.
Finalmente raggiunto da Ippolita, trascorrono alcuni mesi in serenità. Ma presto la donna diventa la ‘nemica’ da sconfiggere. Affascinato sempre più dalle teorie del ‘superomismo’, la considera un ostacolo alla sua elevazione a una vita intellettuale superiore e la trascina con sé nel folle proposito del suicidio.
Egli, il fiacco, l’oppresso, il titubante, l’infermiccio, aveva teso l’orecchio con un profondo turbamento a quella voce nuova che scherniva con sì aspri sarcasmi la debilità, l’irritabilità, la sensibilità morbosa, il culto della pietà, il vangelo della rinunzia, il bisogno di credere, il bisogno di umiliarsi, il bisogno di redimere e di redimersi…
Il tema del possesso assoluto della donna come momento di elevazione personale era già presente nelle due puntate precedenti della trilogia, con il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta (Il piacere) e con Tullio Hermil, il ricco proprietario terriero nullafacente e scientificamente infedele, protagonista nel romanzo L’innocente.
Con una inconcepibile intensità egli oramai nella persona d’Ippolita vedeva soltanto l’imagine astratta del sesso; vedeva soltanto l’essere inferiore, privo d’ogni spiritualità, semplice strumento di piacere e di lascivia, strumento di ruina e di morte
.
E qui c’è tutto Gabriele D’Annunzio.

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