Ho letto “Il sale della terra” di Jeanine Cummins

I posti di blocco sono troppo pericolosi. Cosa rimane? Controlla i biglietti aerei, per quanto non le piaccia l’idea che il suo nome venga inserito in una lista passeggeri. Ormai è tutto digitale, e a che servirebbe allontanarsi di mille chilometri se il suo nome facesse accendere una spia rossa in un database online? 
Per l’edizione italiana di Feltrinelli (traduzione di Francesca Pe’) è stato scelto lo stesso titolo del fortunato e molto premiato film di Wim Wenders sul fotografo brasiliano Sebastião Salgado, Il sale della terra. E pensare che quello originale, American Dirt, sporcizia americana, lo trovo assai più affascinante e la dice lunga su quello che si leggerà nel libro. Tanto più che la “sporcizia americana” ha impedito alla scrittrice di promuovere il libro con un lungo tour sia negli States che in Messico. È successo che il movimento d’opinione degli americani d’origine messicana (critici letterari compresi) ha negato a Jeanine Cummins, bianca, statunitense e probabilmente ricca in virtù del sontuoso anticipo ricevuto dalla sua casa editrice (Flatiron Books), il diritto di scrivere una storia sui disperati migranti latinos. Risultato: il tour promozionale si è arrestato e le vendite sono esplose. Comunque il libro è fenomenale. Jeanine Cummins ha iniziato a documentarsi sui migranti del centro America a partire dal 2013, ha terminato il romanzo nel 2017, ma è uscito negli USA soltanto a gennaio 2020, in contemporanea con la sua traduzione in varie lingue.
La vicenda ha origine ad Acapulco che non è più la favolosa spiaggia perla del jet set internazionale con i prestigiosi alberghi sempre pieni. Da qualche anno è diventata tra le città più insanguinate dalla lotta tra le tante bande criminali aderenti ai vari cartelli dei narcotrafficanti. Il Messico viaggia a 3000 omicidi al mese quasi sempre impuniti. Ad Acapulco, dunque, avviene la strage iniziale del libro. Un incipit niente male, degno del miglior Don Winslow, uno che con i romanzi sui narcos mica scherza. Pare che lo stesso scrittore newyorchese sia tra i principali estimatori di questo libro. Durante la festa di compleanno di un’adolescente viene sterminata un’intera famiglia, sedici persone. È quella del giornalista Sebastián Pérez Delgado. Oggi il Messico è il paese più pericoloso al mondo dove svolgere la professione di giornalista. Delgado aveva appena pubblicato un’inchiesta che scopriva tutti gli altarini del narcotrafficante jefe di Acapulco, Javier Crespo Fuentes. Il narcos era cliente assiduo della libreria di Lydia, la moglie di Delgado. Con lei aveva dimostrato affinità culturali e una certa classe. Sono proprio Lydia e il figlioletto Luca di otto anni gli unici a salvarsi dalla carneficina ordinata da Delgado. Entrambi si erano nascosti in un  anfratto del bagno della casa dell’abuela, la madre di Lydia, dove si svolgeva la festa. Los sicarios non li trovano e se ne vanno lasciando la missione compiuta solo in parte.
Quando Mami torna a tirarlo fuori dalla doccia, Luca sta dondolando avanti e indietro, raggomitolato su se stesso. Lei gli dice di alzarsi, ma Luca scuote la testa e si rannicchia ancora di più, il corpo scosso dal panico.
Non sto raccontando troppo, siamo solo all’inizio del libro e ora arriva il bello: la fuga. Dietro di loro si scatena la caccia. Lydia raccoglie pochi soldi, documenti, la carta di credito della madre. In autobus arrivano a Chilpancingo da una coppia di amici e poi a Città del Messico. L’idea è sparire e raggiungere dei parenti negli Stati Uniti. Ma come fuggire ai sicarios (la banda si chiama Los Jardineros per l’abitudine di tagliare a pezzi i nemici, a volte mettendo in bella evidenza la testa come monito)? E poi c’è la polizia messicana, la più corrotta al mondo.
Lydia distoglie lo sguardo da Luca e si concentra sullo schermo davanti a lei. Adesso la ricerca non è dettata solo dal panico, ma da un’autentica disperazione. Non hanno più scelta. Apre il browser e cerca il tragitto della Bestia che passa più vicino a Città del Messico.
Dalla capitale c’è solo un modo, unirsi alle centinaia di migranti provenienti da tutto il centro America che saltano in corsa sulla Bestia, il treno merci che attraversa longitudinalmente tutto il Messico, spesso rimanendo stritolati sotto le ruote. Sono ‘migranti economici’, come si direbbe dalle nostre parti, mentre Lydia e Luca fuggono dalla morte. Durante la lettura conviene tenere sottomano una cartina dei vari stati che compongono la nazione per capire meglio le tappe e la strada percorsa dai fuggitivi. Una lunga fuga on the road, anzi on the railroad.
Presto incontrano due ragazze, poco più che bambine, Soledad e Rebeca, che fuggono dalla miseria dell’Honduras. Compiranno insieme tutto il viaggio verso gli Estados Unidos. Meta è Nogales, proprio sul confine. Lì ci sono dei sistemi, ovviamente pagando molto, per evitare la migra messicana e quella statunitense, ovvero le polizie che con mezzi molto sofisticati danno la caccia ai poveracci. Poi ci sarà da superare il confine e ancora, prima di arrivare ad una città degna di questo nome, attraversare per giorni il deserto. Ma i sicari di Javier, soprannominato la Lechuza, la civetta, sono dappertutto.
La bellezza del romanzo sta nel rapporto madre-figlio (Luca è un bambino intelligente, spaventato e affettuoso) e nella solidarietà che si innesca con gli altri disperati in fuga. Giunti al termine, si comprende che il significato del titolo voluto per l’edizione italiana è quello evangelico: “In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: voi siete il sale della terra”. Saranno i migranti, i disperati, a salvare il mondo? In ogni caso restare umani è vincente.
La vecchietta sventola la mano verso Luca: “Un regalito,” – dice – “Para la suerte”.  

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