“Austerlitz”, il capolavoro di W.G. Sebald

Nessuno può spiegare esattamente che cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui si sono celati i terrori dell’infanzia.
Credo con questo libro di aver terminato la lettura di tutte le opere di W.G. Sebald, almeno quelle che sono state tradotte in italiano e tutte pubblicate da Adelphi. Non esito a dire che è – e rimane – uno scrittore inarrivabile, un affabulatore sontuoso, è quello che intendo per ‘intellettuale’ del ventesimo secolo. In più, ha acceso un faro sulla mia ignoranza e con le sue opere mi ha regalato un metodo di viaggio nello spazio e nel tempo. Qui sotto ho riportato i link ai miei scritti sulle sue opere.
…chi viaggia solo è in genere contento di trovare un interlocutore dopo giorni e giorni trascorsi in completo silenzio.
L’Austerlitz di cui si parla non è la località boema che ha visto il grande trionfo di Napoleone e dell’esercito francese nel 1805, ma un uomo che Sebald ha conosciuto nel 1967 nella sala d’aspetto della stazione monumentale di Anversa e di cui viene a conoscere la storia nel corso di incontri che si sono susseguiti nell’arco di decenni. Jacques Austerlitz, docente di architettura, è uno studioso proprio di quegli edifici grandiosi e sovrabbondanti rispetto alle reali esigenze, costruiti nell’Ottocento ed in seguito divenuti simbolici come appunto le stazioni ferroviarie, le fortezze, le carceri, i manicomi, i tribunali, gli alberghi storici. Sebald lo ritrova di volta in volta a Liegi, Bruxelles, a Londra, a Parigi e pezzo dopo pezzo apprende la storia della sua vita. Austerlitz vive a Londra e si muove per l’Europa quasi come un barbone, con un vecchio zaino come unico bagaglio. Ha una cultura immensa, tale da sbalordire lo stesso scrittore tedesco. Dapprima gli incontri – a volte casuali e in seguito cercati – sono uno stimolo per Sebald per raffrontare le proprie conoscenze, poi la narrazione di Austerlitz si dispiega nella caratteristica prosa dello scrittore: centinaia di pagine fitte fitte, senza alcun ‘a capo’ e con rari segni di interpunzione. Gli incisi ‘disse Austerlitz’ si susseguono invece in ogni pagina. La sua vita è stata quella di un bambino adottato a cinque anni e cresciuto in un villaggio del Galles nella casa di un predicatore calvinista. Una infanzia infelice la sua, austera e con mille privazioni, come l’atrofizzarsi della lingua materna, la mancanza di notizie sulle proprie origini, per le quali ha dovuto attendere i quindici anni e l’ingresso nelle scuole secondarie, quando, dopo la morte del padre, il direttore lo convoca e gli comunica che non dovrà più chiamarsi Dafydd Elias ma Jacques Austerlitz. Scopre così di essere stato uno di quei bambini giunti a Londra, durante la guerra, con i convogli che dall’Europa centrale nell’estate del 1939 partivano per l’Inghilterra carichi di fanciulli, mentre i genitori venivano deportati nei campi di concentramento e di sterminio. Inizia così le sue prime ricerche su se stesso, sul proprio vero cognome, apprende tra l’altro che Austerlitz era il vero cognome di Fred Astaire, i cui genitori erano emigrati in Nebraska.
Ci vorrà del tempo a Jacques Austerlitz per metabolizzare la necessità di fare delle ricerche approfondite sui suoi genitori. Lo fa nel 1992 quando è ormai un professore di storia dell’architettura affermato. Casualmente incontra due donne che parlando tra loro raccontano di essere arrivate a Londra nel 1939 dall’Olanda con un traghetto di nome PRAGUE. Parte allora per la capitale ceca dove inizia le ricerche, a partire dall’Archivio di Stato dove trova l’aiuto di una funzionaria. Che fine hanno fatto i suoi genitori è facile intuirlo, ma per Austerlitz è fondamentale soprattutto conoscere chi erano, cosa facevano, come vivevano. Ritrova Věra una vicina di casa di allora che si ricordava perfettamente di lui e aveva aiutato la mamma con il bambino quando era al lavoro. Poi lo aveva accompagnato al treno.
Věra si ricordava anche della ragazzina di dodici anni con la fisarmonica cui mi avevano affidato, del giornalino di Chaplin comprato all’ultimo momento, dello sventolio, simile a uno stormo di colombe in atto di levarsi in volo, dei fazzoletti bianchi con i quali i genitori rimasti salutavano i loro bambini.
Pian piano si riaccendono i ricordi di un bambino che aveva quattro anni e mezzo quando è stato privato dei genitori e ha avuto salva la vita. Austerlitz non si ferma a Praga e giunge a Terezín o Therezienstadt dove la mamma Agáta Austerlitz, attrice, ha trovato la morte. Scopre così la vergognosa beffa della città ‘regalata’ agli Ebrei dal Führer.
Vale la pena di leggere queste pagine e andare a cercare materiale filmato di repertorio, qualcosa è rimasto della pellicola propagandistica realizzata dai nazisti per buggerare la Croce Rossa (sull’attività della quale è meglio sorvolare) e l’opinione pubblica mondiale, oppure approfondire questa triste pagina di storia con i numerosi libri che parlano di Therezienstadt. Un altro degli stimoli di approfondimento regalati dai libri di Sebald.
Il tormentato viaggio di Austerlitz prosegue a Parigi per cercare notizie del padre che vi aveva trovato rifugio in tempo per evitare la deportazione. Apprende però che Maximilian Aychenwald, così si chiamava, alla fine del 1942 era stato internato nel lager di Gurs, Pirenei Atlantici, uno dei principali campi di internamento in Francia. Lì comincia un’altra ricerca.
…da un lato finalmente libero dalla sua inautentica vita inglese, dall’altro oppresso dalla sorda sensazione di non poter sentire a casa né in quella città, che sulle prime gli era risultata estranea, né da nessuna altra parte.
Austerlitz è un grande libro, più e meglio di un romanzo, che mi rafforza l’idea della grandezza di W.G. Sebald.

Di W.G. Sebald:
Gli emigrati
Vertigini
Gli anelli di Saturno: un pellegrinaggio in Inghilterra
Secondo natura: un poema degli elementi
Storia naturale della distruzione
Il passeggiatore solitario: in ricordo di Robert Walser
Le Alpi nel mare
Moments musicaux
Soggiorno in una casa di campagna 

A proposito di Sebald:
Il fantasma della memoria

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