Quel giorno in cui Tobagi…

Con un brivido lungo la schiena mi sono reso conto che sono passati quarant’anni da quel 28 maggio 1980, giorno dell’uccisione del giornalista Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera e presidente dell’Associazione Lombarda dei giornalisti. Una pagina molto dolorosa per il giornalismo nostrano (purtroppo ce ne sono state altre) sviscerata da indagini e processi ma mai chiarita nei suoi aspetti più nascosti. C’erano ispiratori, fiancheggiatori o anche solo semplici simpatizzanti di quel brutale mondo dei terroristi all’interno della stampa italiana, nel mondo dei giornali?
Ho il mio personalissimo ricordo di quel giorno. Da pochi mesi avevo iniziato a lavorare, dopo una breve gavetta in altro settore della società di gestione, all’Ufficio stampa e Manifestazioni del Casino di Saint-Vincent. Mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Ero piuttosto giovane, forse ambizioso il giusto e non sapevo che il giornalismo sarebbe diventato la mia professione e ancora meno che un giorno mi sarei occupato anche di politica. Allora stavo terminando la trafila di piccole collaborazioni per diventare pubblicista e meritarmi a tutti gli effetti l’incarico che mi era stato affidato. Italo Fiore, gerarchicamente il mio capo all’ufficio stampa e giornalisticamente il mio primo maestro, ottimo professionista ma soprattutto   una persona dalle rare doti umane, mi aveva incaricato di seguire i grandi premi Saint-Vincent – cinema, teatro, scienze mediche, giornalismo, economia – attraverso i quali la cittadina termale fin dal primo dopoguerra faceva promozione di sé. Proprio il Premio Saint-Vincent di giornalismo, sia per l’anzianità che per i nomi dei giornalisti che comparivano nell’albo d’oro, era sicuramente il più prestigioso. Quella mattina del 28 maggio 1980 al Grand-Hotel di Roma – dove noi di Saint-Vincent facevamo quartier generale per gli impegni nella capitale – era riunita la giuria per assegnare i premi dell’anno. Ciò che dava autorevolezza al Premio di Giornalismo era la composizione della giuria: una ventina o poco più di direttori delle principali testate nazionali. Oggi si farebbe fatica a racimolarne dieci… Quella mattina a Roma erano presenti autentici ‘mostri sacri’ del giornalismo, con i quali nei giorni precedenti avevo avuto contatti diretti per organizzare la riunione (vado a memoria): Montanelli, Scalfari, Letta (Gianni, era direttore del Tempo), Emiliani, Giacovazzo, Fattori, Giovanni Giovannini, Tito, Neirotti, Ciuni e tanti altri, tra cui mi piace ricordare con affetto il mitico Jader Jacobelli, allora direttore delle Tribune Politiche Rai nonché consulente e animatore del premio stesso. Vennero a cercarmi nella sala in cui si svolgeva la seduta della giuria per una telefonata urgente da Saint-Vincent. Un collega mi comunicava la notizia dell’attentato a Tobagi e mi chiedeva di darne conto ai direttori presenti. All’epoca ovviamente non esistevano i telefoni cellulari e vale la pena di riflettere su come si diffondeva il “tam-tam” delle notizie. A me, insignificante non-ancora-giornalista, il destino aveva assegnato il compito di comunicare collettivamente ai direttori delle testate nazionali una delle più ferali notizie della storia del giornalismo italiano, l’assassinio di un giovane e già quotato giornalista, padre di famiglia, di pochi anni più grande di me. Un compito che eseguii con grande emozione e trepidazione tra lo sconcerto generale. Immediatamente la riunione fu sospesa e i direttori corsero a mettersi in contatto con i rispettivi giornali. Contribuii anche a scrivere un commosso comunicato stampa della giuria, ma di quello, giurerei, nei quotidiani del giorno dopo non ci fu traccia. Per me quello fu un brusco risveglio sul tema del terrorismo. Da qualche anno mi ero trasferito da Torino in Valle d’Aosta e l’eco della strategia della tensione e degli anni di piombo mi giungeva come ovattato. Le discese in città a trovare i miei genitori neppure lontanamente mi davano la sensazione di quell’atmosfera cupa e di paura che si respirava a Torino. Anche se negli anni alla Fiat – ho lavorato dal 1970 al 1976 alla Spa Stura licenziandomi proprio per andare a lavorare in Valle – avevo impattato con un sindacalismo esasperato entro il quale stavano covando i germi di ciò che avrebbe rappresentato il terrorismo.

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