“Gli occhi dell’eterno fratello”, l’apologo sulla giustizia di Stefan Zweig

…consigliare è meglio di dar ordini, e appianare è meglio che infliggere condanne.
Dopo aver letto oltre una decina di libri, continuo nella mia scoperta di Stefan Zweig, uno dei più grandi letterati del ‘900. Ogni volta mi sorprendo per la sua facilità di cambiare continuamente registro. E la sua produzione è stata infinita! Con questo romanzo breve (le sue opere non sono mai troppo corpose) ci riporta in Oriente. Die Augen des ewigen Bruders, scritto nel 1922, era stato amato da Hermann Hesse che vi trovava una comunanza con il suo Siddharta, anch’esso pubblicato nel 1922. Tra i due era nata un’amicizia negli anni in cui l’austriaco Zweig si trovava in Svizzera, tra il 1917 e il 1919.
Gli occhi dell’eterno fratello è un apologo morale  presentato sotto la forma di una leggenda indiana. Il tema è la giustizia e la sua difficoltà, se non impossibilità, di trovare applicazione.
Prima ancora che Buddha il Sublime dimorasse sulla terra, il nobile Virata era un guerriero al servizio del suo re. Durante una rivolta, guida l’esercito contro i ribelli. Una notte penetra nel loro accampamento e nel buio di una tenda uccide i capi dei rivoltosi. Tra di essi vi era il fratello del re, ma anche il fratello di Virata.
Il respiro di Virata si fece cortissimo: come un cadavere vivente egli sedeva lì in mezzo ai morti e distoglieva lo sguardo, affinché gli occhi immoti del fratello, da sua madre messo al mondo prima di lui, non lo accusassero del delitto.
Per premiarlo della sua fedeltà e del successo contro i rivoltosi, il re vorrebbe confermare Virata a capo del suo esercito ma questi si oppone e abbandona le armi: Ho ucciso mio fratello affinché potessi comprendere che chiunque uccida un uomo uccide suo fratello.
Il re si deve privare dei suoi servigi in guerra e allora lo nomina primo fra i suoi giudici. Per anni Virata amministra la giustizia con passione e tanto buon senso. È amato da tutti e rispettato anche dai condannati. Ha orrore del sangue, non condanna mai a morte, neppure per i reati più gravi e ha un principio da seguire sempre: fra l’interrogatorio e la condanna lasciava sempre passare il fresco intervallo di una notte: nelle lunghe ore antelucane i suoi lo sentivano camminare inquieto sull’altana, mentre rifletteva sul giusto e sull’ingiusto.
Un giorno però un giovane condotto in catene davanti a lui per essere giudicato si ribella e gli instilla il dubbio sulla verità dei fatti. Virata lo condanna ugualmente – un certo numero di anni in fondo a una caverna e settanta frustate – ma poi riflette e decide di sostituirsi per qualche tempo al condannato. Saluta il re, chiedendo una sorta di congedo, e la propria famiglia. Il condannato, sorpreso, ottiene la libertà e una memoria di Virata da consegnare al re dopo la luna nuova. Il giudice dunque sperimenta cosa si prova ad essere nei panni di un condannato, compresa la fustigazione sulla pubblica piazza. Al termine del periodo il condannato riprende il suo posto, ma Virata è cambiato e quell’esperienza fa sì che non si senta più in grado di giudicare gli altri. Rinuncia alla sua posizione, abbandona la famiglia e diventa un eremita, un giusto, un consigliere con una buona parola per tutti. La sua fama cresce e giungono forestieri da tutto il paese per  chiedergli di appianare le loro controversie. Ma dopo anni di questa nuova vita viene accusato di aver  indotto altri, con il suo esempio, a comportamenti sbagliati.
Perché anche chi non agisce compie un’azione, che lo macchia di colpa sulla terra, anche l’eremita solitario vive in tutti i suoi fratelli… Azione è anche l’inazione; agli occhi dell’eterno fratello, al quale in eterno facciamo e bene e male, contro la nostra volontà, non potei sottrarmi.
Virata rinuncia quindi al suo ruolo di saggio eremita, caduto in disgrazia anche presso il re, che nel frattempo è cambiato, abbandonato dai figli che non hanno mai compreso le sue scelte, conclude la sua vita in estrema povertà, facendo il guardiano dei cani. Ma in pace con se stesso.
Soltanto la parte centrale dell’azione è opera nostra – il suo inizio e la sua fine, la sua causa e il suo effetto sono nelle mani degli dèi.
Il racconto-leggenda orientale di Stefan Zweig stimola importanti riflessioni sul tema della Giustizia e sulla difficoltà di applicarla equamente. Tema che non perde mai di attualità.

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