“Fiore di roccia”, Ilaria Tuti mette la Storia nella storia

Siamo sempre altri per qualcun altro. C’è sempre un sud e un nord, un est e un ovest. Non hanno forse anche gli altri una madre e un padre che li aspettano?
Seguo Ilaria Tuti da un paio d’anni, dall’uscita del primo dei due romanzi che hanno per protagonista il commissario Teresa Battaglia. Mi piace perché ambienta le sue storie tra boschi, pietre e ghiacci delle sue montagne, che sono quelle dell’alto Friuli. In più attinge a elementi delle tradizioni e del folklore locali. In questo libro fa un ulteriore salto di qualità e aggiunge la Storia, nella fattispecie l’inferno del fronte carnico della prima guerra mondiale. Protagonista ancora una donna, anzi le donne.
Fiore di roccia è un omaggio alle coraggiose contadine, ricordate e onorate oggi come ‘Le Portatrici carniche’.
Hanno svolto un ruolo fondamentale in guerra arrampicandosi giorno dopo giorno da fondo valle, facendo la spola tra i magazzini  militari e la prima linea con le loro gerle cariche di cibo, materiale bellico e medicinali destinati agli uomini impegnati in trincea, ma soprattutto per elargire i preziosi consigli di chi la montagna la vive e la conosce bene. Ne è un esempio l’uso dei silenziosi scarpetz per la risalita di certi canaloni, in luogo degli scarponi chiodati che con il loro rumore attiravano l’attenzione degli austriaci. Quanto narrato è frutto della fantasia di Ilaria Tuti, ispirata però da fatti e persone reali, come documentato da tanti testi elencati in appendice e da quanto esposto nel Museo della Grande Guerra di Timau, dove nel 1992 è stato inaugurato un monumento dedicato alle portatrici e in particolare a Maria Plozner Mentil, uccisa da un cecchino austriaco il 15 febbraio 1916.
Il romanzo è narrato in prima persona dalla protagonista Agata Primus, figura eccezionale di donna caparbia, tenace e resiliente, disposta al sacrificio: Mi chiedo con angoscia che cosa possano fare le mani di chi è rimasto, se non chiudere occhi e scavare sepolture.
E invece queste contadine hanno fatto molto di più per la salvezza delle loro terre 
in un’epoca in cui le donne erano abituate a essere definite attraverso il bisogno di qualcun altro. Hanno raccolto la richiesta d’aiuto che giungeva dagli alpini in trincea sul Pal Piccolo, in prossimità del Passo di Monte Croce Carnico, dove ancora oggi è possibile visitare i resti delle trincee e dei baraccamenti usati dalle truppe italiane ed austriache durante il conflitto. I nostri soldati erano in difficoltà per il vettovagliamento e il rifornimento di munizioni.
Agata scarpina su e giù per la montagna, estate e inverno, fintanto che dura la guerra. Con le sue compagne di ogni età – anche quasi bambine o molto anziane – contribuisce alla strenua difesa su quel fronte pure con incombenze in apparenza banali, come lavare le divise dei soldati: Strofino abiti di morti. Chi ce li ha dati non aveva ferite tali da far sgorgare tutto questo rosso sulla valle.
Ha il padre moribondo in casa che presto la lascerà, ma non lesina il suo impegno con le altre donne di Timau. In fondo, oltre a salire e scendere in giornata i mille metri di dislivello, queste donne vivono le loro incombenze quotidiane a casa, accudire i figli e gli anziani, governare le bestie, occuparsi della campagna. Agata Primus è una sorta di capo e portavoce del suo gruppo nei confronti del capitano Colman, il comandante del distaccamento e dell’ufficiale medico Janes, altre due belle figure create da Tuti, come pure il parroco don Nereo.  Nel descrivere questi rapporti la scrittrice pecca forse un pochino di retorica, ma gliela si perdona volentieri di fronte al gigantesco affresco che va componendo.
Poi, Agata incontra il nemico, faccia a faccia, ed è un’esperienza sconvolgente, cambia il suo punto di vista sulla guerra. Ma oggi ho incontrato il nemico. Per la prima volta, ho visto la guerra attraverso gli occhi di un diavolo bianco. E ora so che niente può più essere come prima.
La ritroviamo infine nell’epilogo, molto anziana, ovviamente sopravvissuta a due guerre e tornata in Friuli solo dopo il terremoto del 1976, che racconta cosa è stato della sua vita dopo la Grande Guerra e le sorti delle sue compagne di avventura.
Non conosco le rose. C’è invece un’espressione più felice che racconta la tenacia di questa stella alpina: noi la chiamiamo fiore di roccia.

Ninfa dormiente (2019)
Fiori sopra l’inferno (2018)

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