Ho letto “Un giorno d’estate” di John Banville

“Lei è molto…” cercò la parola “…cynique, dottor Quirke.” Sorrideva.
“Cinico? Spero di no. Realista, direi”.
“No, so qual è il termine giusto per lei: disincantato. Una bella parola, ma triste”.

Solo in Italia le storie dell’anatomopatologo Quirke sono pubblicate direttamente a firma John Banville, una scelta dell’editore Guanda, mentre negli altri Paesi lo scrittore irlandese preferisce farle uscire sotto lo pseudonimo di Benjamin Black. A ben vedere non ha tutti i torti, volendo distinguere la sua produzione ‘alta’ da questi romanzi che, pur non essendo propriamente di evasione (non è assolutamente in discussione la loro qualità), hanno comunque una caratteristica ‘seriale’. Lui stesso afferma che quando scrive come Benjamin Black diventa un’altra persona e anche la tecnica di scrittura è diversa. In questo senso stona il richiamo in copertina come ‘Autore de Il mare’, grande romanzo ma uno dei tanti dello scrittore di Wexford, di cui tra l’altro è attesa una versione cinematografica.
“Un giorno d’estate” è la quarta storia della serie (è curioso che il titolo originale sia “A Death in Summer”!). Ognuna è a sé stante, ma consiglio sempre di leggerle in sequenza. Come sempre siamo a Dublino negli anni Cinquanta. I quotidiani internazionali riportano titoli sulla guerra d’Algeria, il colpo di stato di Nasser in Egitto, l’immancabile Tour de France. Il magnate dei giornali Dick Jewell viene ritrovato orrendamente martoriato nel suo ufficio nella tenuta che possiede a Kildare, una cinquantina di chilometri dalla capitale. Imbraccia ancora il fucile da caccia che qualcuno in un maldestro tentativo di depistaggio gli ha posato tra le mani.
Sul finestrone panoramico di fronte alla scrivania c’era un grosso spruzzo di sangue e cervello, come un’enorme peonia, con al centro un buco profondo da cui si scorgeva un paesaggio di morbide colline erbose che digradavano verso l’orizzonte.
Uno spettacolo orribile, anche per chi è abituato al ‘vecchio odore familiare della morte violenta’ come l’ispettore Hackett e il dottor Quirke, inviato sul luogo del delitto in veste di medico legale: i due costituiscono una coppia collaudata, ma Quirke, curioso di natura, a volte tende a investigare per conto suo. Il solitario e ombroso anatomopatologo, per l’ennesima volta uscito da un periodo di disintossicazione dall’alcol, fa la conoscenza con la vedova del magnate, un’affascinante e raffinata signora francese. Tra loro scatta qualcosa.
Sembrava attraversare le giornate fluttuando in uno stato di beatitudine inebetita, mentre tutti gli ostacoli si aprivano davanti a lui come acque prive di peso.
Certo che Jewell aveva tante attività e un sacco di nemici, ma le indagini si indirizzano nella cerchia delle persone a lui più vicine: la moglie, la sorellastra, lo stalliere (che strano aveva dei precedenti penali….), un altro editore con cui aveva rapporti societari, il figlio viziato e debosciato. Intanto Quirke riceve oscure minacce, tentativi di farlo desistere dal curiosare, soprattutto nell’attività di un orfanotrofio di cui Jewell era benefattore e nel quale lui stesso era cresciuto per qualche tempo.
Era un orfanotrofio esclusivamente maschile. Chi ci passava ne ricordava soprattutto l’odore particolare, un misto di pietra umida, lana bagnata, urina stantia, cavolo bollito e un altro odore, sottile e penetrante, che a coloro che sopravvivevano al St Christopher sembrava il puzzo della miseria stessa.
Trattandosi di un ‘noir’ non vado oltre nella trama. Chi ha letto gli altri romanzi della serie, iniziata nel 2005 con “Dove è sempre notte”, si ritrova perfettamente nelle atmosfere dublinesi, oscure anche in estate nonostante albe e tramonti da cartolina, e nei rapporti tra Quirke e la figlia Phoebe, sempre involontaria testimone, quando non protagonista, delle vicende che coinvolgono il padre.
Rimase in piedi con le mani in tasca, a guardare fuori assente – un po’ di prato, un sentiero ghiaioso, uno scorcio di mare in lontananza – e ad ascoltare i borbottii lievi e apparentemente ansiosi nelle profondità delle sue viscere. Il pranzo gli era rimasto sullo stomaco.

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