Ho visto “Cesare deve morire” di Paolo e Vittorio Taviani

Di teatro nel cinema se ne è visto molto. Tralasciando le semplici sceneggiature cinematografiche di testi teatrali, la filmografia mondiale è zeppa di pellicole che riprendono una messa in scena e ne raccontano il dietro le quinte. Su questo versante si sono mossi i fratelli Taviani nel confezionare l’opera che ha vinto l’Orso d’Oro al festival di Berlino. Ma la loro grandezza è stata l’appropriarsi di un lavoro fatto nel carcere di Rebibbia, uno dei tanti luoghi ove sono impegnate compagnie teatrali in programmi di rieducazione, in collaborazione con il Ministero della Giustizia. Cito per tutte la storica Compagnia della Fortezza a Volterra e a Torino il Cast di Claudio Montagna. Ma è poi corretto parlare di attività di rieducazione, quando i primi a ricevere e imparare qualcosa sono proprio coloro che lavorano con i carcerati, cioè i volontari, gli attori, gli animatori teatrali?
Questa mi pare essere la lezione che viene dal film “Cesare deve morire”, il valore aggiunto che i reclusi danno alla recitazione, in questo caso di un testo importante come il “Giulio Cesare” di Shakespeare, e che restituiscono allo spettatore. Il film è straordinario sotto il profilo della tensione. I Taviani usano il bianco e nero per tutta la fase di preparazione, passando al colore per la recita vera e propria. A proposito, è splendida la fotografia di Simone Zampagni, eccellente il montaggio dell’esperto Roberto Perpignani, collaboratore prediletto di Paolo e Vittorio Taviani. Il film prende l’avvio con il finale della recita e con la morte di Bruto. Poi ci riporta a sei mesi prima, all’idea dell’allestimento e ai provini, con la conseguente selezione degli attori. E’ un momento forte. I primi piani sono insistenti e lo saranno per tutto il film. Poi inizia la lettura del copione, con il regista che consiglia, stimola ma lascia anche recitare ciascuno secondo la propria indole e il proprio dialetto. Mentre lo spettacolo prende forma, emerge una strana commistione tra il testo e la vita reale dei detenuti, che si ritrovano in maniera drammatica in quei dialoghi scritti secoli prima.
Ovviamente lo spettacolo è un grande successo ma poi la realtà riconduce ognuno al proprio presente, fatto di pene da scontare per molti anni e per alcuni senza un futuro oltre le sbarre. Emblematica la frase finale pronunciata da un attore al rientro in cella: “Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella mi sembra una prigione”. Un’ora e un quarto di grande cinema e una lezione da meditare per tutti.

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