Ho letto “I Sansôssì – la storia di Papà” di Augusto Monti

“Noi nella vita abbiamo il padre e abbiamo Papà: il padre che ti mette al mondo, Papà che ti leva da terra, e ti tiene come cosa sua e cara. Il padre ti ha generato; ma chi ti vuole bene e ti diverte bambino e ti castiga grandicello, e uomo, se sopravvive, ti ammira, questo è Papà e nessun altro che lui”.
Mi appunto una medaglia per la lettura di questo capolavoro di Augusto Monti che fu – giova ricordarlo – insegnante di lettere al D’Azeglio di Torino e influenzò la formazione di Cesare Pavese, Massimo Mila, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Leone Ginzburg. A tanto arrivò, attraverso un complesso rapporto con il padre Bartolomeo, la cui storia è appunto qui raccontata. Carlìn – l’alter ego dietro il quale si cela Augusto – in ottocento pagine racconta la storia della sua famiglia e di suo padre e poi la propria, dall’epoca codina napoleonica a, grosso modo, l’avvento del fascismo.
“E fu così che il babbo di Papà, quel dì, addormentandosi sulle ginocchia della donna che attaccata alla testa ci aveva ancora la coda, da quel soave guanciale si svegliò che la coda non ce l’aveva più”.
Siamo in quell’angolo di Piemonte segnato dal Bormida dove le province di Asti, Alessandria, Cuneo si toccano ed insieme sentono l’aria della Liguria. Monastero Bormida, Ponti, Monesiglio: in queste località si snoda la storia dei Monti, mugnai di storica estrazione.
“La molinera dal molìn / chila a porta i rizolin / e s’l’ai porta ‘s’na manera / cola bela molinera….”.
Tipo davvero singolare è Bartolomeo Monti: giovincello abbandona la scuola per arruolarsi con Carlo Alberto – siamo nel 1848 – ma non farà né l’uno né l’altro. Non parteciperà ai moti e non terminerà gli studi, il rammarico gli resterà per tutta la vita. Fallirà come mugnaio, come commesso in un negozio a Torino, come segretario comunale a Monastero.
Con la parola ‘morba’ Bartolomeo descrive la propria attitudine, secondo lui caratteristica di famiglia.
“Morba, parola del vernacolo di Papà: viso ed aria di persona albagiosa e sufficiente….che adoperava solo lui con noi per significare sussiego, boria, fasto e grandigia da una parte, ma dall’altra anche signorilità, distinzione, finezza e simili, e tutt’assieme insomma insofferenza di mediocrità, istinto ad elevarsi, presunzione di aristocrazia, consapevolezza di singolarità”.
Appena cresciuto però Carlìn/Augusto dà un’altra spiegazione di ‘morba’ ed è in totale disaccordo con suo padre: “impazienza del proprio stato e di desiderio dello stato altrui, di magnificazione della vita degli altri e di disdegno della vita nostra; quello che non si ha non basta e non ci piace, è quello che non si ha che si vorrebbe urgentemente ottenere; tutto il brutto è di qua, il bello tutto di là; insoddisfazione quindi, malcontento, invidia: disagio di gente disequilibrata, irrequietezza di spostati”. Volere e non potere, insomma, cominciare e non finire, la sindrome del pipistrello “né rat né usel!”.
Dunque papà come un fallito. Sposato due volte e due volte vedovo, riversa tutte le sue frustrazioni sul figlio più piccolo, Carlìn appunto, avuto alla veneranda età di cinquant’anni. Alla sua educazione si dedicherà a tempo pieno. Sono le pagine più belle del romanzo – non so neppure se è giusto considerarlo tale -, il ragazzo cresce a Torino tra passeggiate, favole e poesie, e per il padre è una sorta di riscatto morale avverso un destino che non gli ha regalato nulla. Nelle parole di Bartolomeo si snodano così le storie dell’ottocento piemontese: Napoleone, Carlo Alberto, Mazzini e Cavour, e poi Giolitti e Saracco, l’Italia da costruire, Lombroso, la questione meridionale…
“Ogni storia è storia contemporanea, e ogni biografia è autobiografia……Credeva Papà in buona fede allora di raccontare al suo piccino, per passatempo e per esempio, la storia di Napoleone I, narrava in effetto, la storia di se medesimo..”
Carlìn cresce e studia e presto arriva quell’età in cui ci si affranca dal padre, si hanno altre idee. Di qui il secondo sottotitolo del libro, “Tradimento e fedeltà”.
“Trent’anni, stagione più stagione meno: l’età dell’impiego, l’età delle nozze, l’età della fede filosofica, l’età della convinzione politica, l’età in cui ‘ci si mette a posto’. L’età di tutte le dedizioni e di tutti gli abbandoni… Abbandono delle cose e persone appartenenti al mondo da cui tu provieni: padre e madre, amici d’infanzia, letture predilette… L’età di tutte le ingratitudini… La trilogia della vita, che si svolge proprio così: ‘l’idolatria del padre’ al primo atto; ‘il divorzio del padre’, al secondo; e al terzo, e ultimo – che il padre non c’è più – ‘la santificazione di Papà’, l’inginocchiarsi tra singulti e percosse di petto sulla tomba di lui”.
L’ultima parte del libro è dedicata all’attività politica e sindacale di Augusto Monti nell’ambito della scuola. Mirabile la sua descrizione di un congresso, applicabile a quasi tutti i congressi e convegni che si tengono anche oggi.
E vuoi sapere cosa fu quel congresso? te lo dico subito: un mucchio di gente accorsa alla Capitale sul finir delle vacanze per trovarci l’amico o il parente e per sollecitare al Ministero il trasferimento; quattro ingenui a sbracciarsi; quattro vanesi a pavoneggiarsi; un pugno di massoni ad armeggiare e una massa di buontemponi in platea a smanacciare applaudendo ai tribuni, sapendo bene di non correr nessun pericolo con ciò”.
Mi appunto la medaglia, dicevo, perché è un libro difficile e entusiasmante; perché mi preparo così alle celebrazioni dei 150 anni di un’Italia che i nostri antenati hanno voluto unita; perché mi commuove leggere espressioni piemontesi che avevo dimenticato o che non sentivo più dalla morte di mio padre; perché in questo libro c’è tanta Torino ‘che la metà basta’; perché il Piemonte qui descritto con le sue contraddizioni – “…fredda e angusta anima piemontese, renitente ad ogni slancio, diffidente d’ogni novità, attenta al guadagno, che, con lo scadere di quelle classi dominanti, s’è fatta dimentica degli antichi doveri senza essere divenuta capace dei nuovi” – è assai più vero e vivace di mille manifestazioni leghiste.

Tanto ci sarebbe ancora da dire su questo capolavoro, assemblaggio di tanti scritti di Monti, che solo negli anni sessanta con Einaudi ha conosciuto questa stesura definitiva. Ripubblicato nel 2003 dall’editore Araba Fenice e impreziosito da una postfazione di Massimo Mila. Resta da dire qualcosa sul titolo: I Sansôssí , gli spensierati nella traduzione più letterale e sbrigativa, ma anche “sensa côgnission”, sventati e impetuosi come dice Monti della propria famiglia.

“- Carlìn!- Papà?- Ma tu, pur se manco io, sarai buono a proseguir da te?- Sì Papà.- E tu, se un’occasione si presenta, se l’occasione si presenta, tu, Carlìn, te la lascierai scappare come me?- Il piccino levava gli occhi a Papà. Bene bene non capiva. Papà calava gli occhi sul piccino. Il piccino rispondeva sicuro:- No, Papà. Sta’ tranquillo che no”.

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1 risposta a Ho letto “I Sansôssì – la storia di Papà” di Augusto Monti

  1. Gianni Milani scrive:

    Lo sto leggendo adesso è confermo la sensazione di aver scoperto un capolavoro sconosciuto ai più.

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