Ho letto “Il corso delle cose” di Andrea Camilleri

“Ambientare un racconto a Londra o a Nuo­vaiorca resterà l’ambizione massima e purtroppo sempre delusa dell’autore: egli, non possedendo la fantasia di un Verne e francamente restio all’aeroplano, di questa città conosce soltanto quello di cui l’informano il cinematografo e la TV. Sa naturalmente dove si trovano Bond Street o la Quinta strada ma degli uomini che ci passano e ci campano ignora praticamente ogni cosa. Al contrario, crede di sapere tutto delle parti sue e dei suoi compaesani ha l’ambizione di riuscire a indovinare magari i pensieri. E sbaglia, natural­mente”.

Inizia così la breve prefazione a “Il corso delle cose”, il primissimo romanzo concepito da Andrea Camilleri nell’assai lontano 1967 e poi pubblicato dapprima timidamente da Lalli nel 1978, poi in maniera più cospicua da Sellerio vent’anni dopo.
Siamo naturalmente in un paese della Sicilia nell’immediato dopoguerra quando gli echi del fascismo si fanno ancora sentire come pure il passaggio delle truppe di liberazione. Il personaggio centrale è Vito, un tipo tranquillo che non è “omo de panza”, e che una sera subisce un attentato. Due colpi d’arma da fuoco, sparati davanti a casa, forse solo per spaventare. Ma perché? Il giorno dopo tutto il paese si interroga. Si apre così una carrellata di personaggi a volte ben delineati, in altri casi più sfumati. C’è l’orbo, lo zoppo, il cornuto, il medico, il pastore, alcuni notabili con un passato da nascondere e dal presente alquanto nebuloso. Vito è un modesto allevatore di polli e improvvisamente la sua attività sembra interessare qualcuno. Quale sarà il motivo? Semplice. U pilu, direbbe Cetto La Qualunque. “…tanto odio, fra due ch’erano amici, si spiega solo con la fimmina di mezzo…. da noi, si muore solo di corna”.
Per il maresciallo dei carabinieri Corbo, antesignano del commissario Montalbano, e per il fido carabiniere Tognin il caso è presto risolto.
“Il corso delle cose è sinuoso”, Camilleri prende a prestito una frase di Merleau-Ponty, nel senso che in tutti gli accadimenti non c’è mai una logica.
Avvincente come un romanzo a sé stante è la postfazione, in cui Camilleri racconta la genesi di questo suo primo lavoro. In esso dissemina qui e là termini siciliani, tentando di raggiungere livelli di espressività non consentiti dalla lingua italiana e ponendo le basi per quella geniale reinvenzione del dialetto siciliano che è alla base della sua scrittura.

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