Ho letto “Cronache del rum” di Hunter S. Thompson

Là fuori sembrava il paradiso, tutto così tranquillo e assolato. Volevo perdermi tra le palme e dormire, mangiare un po’ di ananas e camminare nella giungla fino a perdere i sensi.
Ho voluto leggere questo libro dopo aver visto il film – The Rum Diary – che ne hanno tratto. Troppo brutta infatti mi sembrava la pellicola prodotta e interpretata da Johnny Depp per essere vera. Il libro è stato scritto nei primi anni sessanta ma pubblicato solo nel 1998 (in Italia nel 2007) ed è ambientato nel 1958. Per la storia rimando a quanto già scritto in precedenza nella recensione del film.
La trama del film semplifica però molto ciò che è raccontato nel libro dove ci sono alcuni personaggi in più. Ad esempio la bella Chenault non è la fidanzata di Sanderson ma di un altro giornalista randagio, Yeamon, che nel film non è presente mentre nel romanzo ha un ruolo fondamentale.
Allora non era difficile trovare dei compagni di sbronza. Non duravano molto, ma continuavano ad arrivare. Li chiamo giornalisti randagi perché non esiste termine più appropriato.
Molto più del film il libro trasuda rum: se si potessero strizzare le parole ne scenderebbe a ettolitri. “E’ il marcio dei tropici. Tutto questo sbevazzare senza sesso!”. Doveva effettivamente essere così la vita a San Juan di Portorico in quegli anni, con un misto di avventurieri, affaristi, giocatori, mafiosi in fuga, sgualdrine di mezza età a caccia di miliardari.
La luce delle sale da gioco non è l’ideale per le donne di una certa età. Fa risaltare ogni ruga del viso e ogni bitorzolo del collo; le gocce di sudore tra i seni arrossati, i peli intorno ai capezzoli sgusciati fuori dalla scollatura, le braccia flaccide e l’occhio infossato.
Il protagonista Paul Kemp è un giornalista trentenne che scrive poco e beve molto, un ribelle sui generis, sempre alla ricerca di una sua strada che troverà solo con il ritorno a New York, lasciandosi alle spalle le scorte di rum, i pomeriggi sudati, i compromessi per raccattare quattro soldi. Come lui gli altri personaggi: “Andiamo tutti verso gli stessi posti del cazzo, facciamo le stesse cazzo di cose che la gente ha fatto per cinquant’anni, e aspettiamo che succeda qualcosa”.
In definitiva il libretto è leggibile. Meglio se sotto un ombrellone in riva al mare, anche non ai tropici. A patto di avere a portata di mano un daiquiri ben ghiacciato. Non è il mio caso: niente ombrellone, niente mare, niente daiquiri. Solo un sabato piovoso torinese da cui una bella storia riesce a farti evadere.
Quella che veniva spacciata per società mondana era una chiassosa e frivola giostra di ladri e maneggioni, uno spettacolino sordido pieno di ciarlatani e pagliacci e filistei dalla testa bacata.

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