Ho letto “Coral Glynn” di Peter Cameron

Esplorava i vari sentieri che, con sua sorpresa, sbucavano ognuno in un modo diverso: il cimitero di una chiesa, un aerodromo abbandonato, il giardino inselvatichito di una vecchia casa, i prati irrigui. Si rese conto che la foresta non era molto grande, ma al suo interno ci si sentiva comunque isolati.
La scena madre è l’acquisto dell’abito per il matrimonio. Coral lo porta in stanza e lo prova, ma si accorge di non riuscire ad abbottonarlo da sola. Ma lei “è” sola. Decide di riportarlo al negozio ma nello sfilarlo lo strappa leggermente. La negoziante non lo vuole riprendere. “Basta, non mi sposo più” dice Coral. E con quella crisi di nervi Coral rivela tutta la sua fragilità, la solitudine, la precarietà della sua giovane esistenza.
Coral Glynn è una giovane infermiera, sola al mondo. Lavora a casa della gente, come infermiera personale, spesso per assistere malati terminali. Come accade a villa Hart (siamo nella campagna inglese del 1950 – Harrington, Northamptonshire) dove accudisce la mamma del maggiore Clement Hart, altro solitario, dopo le terribili ferite subite in guerra che lo hanno lasciato claudicante e ustionato nelle gambe e sull’addome. Ovviamente complessato per le menomazioni, non ha mai toccato una donna. Così quando la madre passa a miglior vita, invece di liquidare l’infermiera, Clement le propone – timidamente e con molta cautela – di restare e di sposarlo.
“Sant’Iddio, sai che me ne importa della facciata. A me piacerebbe andarmene chissà dove e vivere da eremita”.
Clement frequenta solo una coppia di amici, Robin e Dolly. Con Robin da ragazzo ha avuto una storia che cerca di dimenticare mantenendo viva solo l’amicizia. Per Robin non è così e il suo matrimonio è soltanto un ripiego.
Amicizia: che parola difficile, insoddisfacente. Un sentimento di scarso valore: di notte non ti scalda, e non si può neanche toccare. L’amicizia ti dà solo un pochino di una cosa di cui hai bisogno in grande quantità, e a poco a poco ti affama, ti debilita, ti distrugge.
Ciò che lega Coral e Clement è un qualcosa di molto flebile, un sentimento che ha bisogno di crescere. Il matrimonio viene celebrato ma poi non consumato. La sera stessa Coral va a dormire a casa di Dolly e Robin e la mattina dopo parte per Londra, dove trova un altro lavoro e si stabilisce.
“Forse è meglio perdere del tutto una cosa che stare aggrappati ai pezzi che ci sono concessi”.
Di mezzo c’è la morte di una bambina, trovata impiccata nella Foresta Verde, per la quale viene accusata Coral.
Non proseguo nella trama per non togliere il piacere di una lettura che per me è stata viva ed emozionante. Non è propriamente un giallo, non è un noir – l’autore evita di dargli quel taglio – ma è ugualmente avvincente anche se parla soprattutto di sentimenti. Cameron centellina in maniera magistrale i vari elementi della vita privata di Coral, la cui figura sorprende e inquieta a ogni pagina. Allo stesso modo si comporta con i personaggi: la governante, il garzone del fioraio, l’ispettore, la negoziante…..
Un appunto alla traduttrice, Giuseppina Oneto.
Sentirono entrambi il suo uccello crescere contro di lei.
In un romanzo così delicato e mai volgare mi ha infastidito leggere la parola ‘uccello’, qualsiasi altra sarebbe andata meglio.
Un appunto alla Adelphi. I libri costano, si sa, e il lettore pretende. Perché non migliorare la revisione delle bozze?
Infine mi immagino già il film che ne trarranno. Come è avvenuto per tutti i romanzi di Peter Cameron, molto diversi fra loro. Penso a un tipo come Alba Rohrwacher per la parte di Coral. Mi pare abbia le caratteristiche giuste per impersonarne le diverse sfaccettature.

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