Ho letto “Gli sbirri hanno sempre ragione” di André Héléna

Del resto è un mio principio, in gattabuia non faccio mai il coglione. Non serve a niente.
Gli appassionati lettori di ‘noir’ conosceranno certamente André Héléna (1919-1972), prolifico autore francese, molto in voga negli anni Cinquanta e Sessanta, che ha pubblicato sotto decine di pseudonimi. L’ho scovato allo stand della piccola e vivace casa editrice sarda Aìsara, al Salone del Libro, accorgendomi peraltro che i suoi estimatori sono davvero molti. (La mia ignoranza letteraria continua ad essere abissale, pari solo alla mia curiosità….). Incuriosito, ho chiesto quale fosse il primo romanzo da lui scritto ed eccomi qua con Gli sbirri hanno sempre ragione. Héléna lo ha scritto nel 1949, durante un periodo di reclusione di alcuni mesi, mettendoci quindi conoscenza diretta oltre che fantasia.
Nella prefazione alla prima edizione lo scrittore sostiene che la tortura non è morta con la Gestapo, ma è pratica inquietante della polizia parigina. Alla seconda edizione (1952) Héléna scende nel dettaglio e aggiunge che i detenuti arrivano all’interrogatorio davanti al giudice istruttore “chiazzati di ecchimosi e con il volto sanguinante”, a causa, secondo la polizia, della classica caduta dalle scale. E’ un ‘noir’ denuncia? Sembrerebbe di sì, laddove il protagonista Théophraste ‘Bob’ Renard, pregiudicato ma voglioso di riscattarsi attraverso il lavoro e l’amore, viene nuovamente incarcerato e condannato non di fronte a prove ma semplicemente perché ‘capace del fatto’.
Con il poco che avrei guadagnato e le mance, forse sarei riuscito a mangiare e dormire in una mansarda che le piattole avevano trasformato in un casinò.
Théophraste racconta in prima persona la sua disavventura. Certo, non è uno stinco di santo, ha subito alcune condanne, ha un foglio di via che non rispetta perché Parigi è l’unico posto dove può trovare un lavoro.
Quando ne ero lontano, avevo il corpo e la mente intorpiditi, come appesantiti dal fango dei campi bagnati. Mi bastava un sibilo di fisarmonica, l’aria canaglia di una giava per ritrovare l’odore della benzina, il rollio sordo delle automobili e degli autobus e perfino il profumo particolare del metrò. No, non avrei lasciato Parigi.
Fin dalla prima pagina si è immersi in quest’atmosfera carica di odori che mutano a ogni stagione, di sapori forti, di suoni che riportano ai primi anni del dopoguerra.
Seguivo con gli occhi una biondina, cicciottella, che trovavo provocante. Dall’ultima volta che avevo posseduto una donna, quello era il primo posteriore che mi mozzava il respiro. Seguivo con lo sguardo la proprietaria di quelle meraviglie gustando filetti di aringhe seccate, quando una mano si poggiò sulla mia spalla.
Il passato ritorna ad affacciarsi e i ‘flic’….. hanno sempre ragione. Ora che ha trovato un lavoro soddisfacente e una ragazza da amare, assai diversa dalle solite ‘bottarelle’ date a destra e a manca, Bob non riesce a staccarsene pur se ha fiutato il pericolo….
Ero trattenuto lì da mille fragili fibre la cui rottura sarebbe stata dolorosa, prima di tutto Geneviève con le sue labbra di corallo e i suoi occhi chiari, poi quella primavera parigina, leggera e frizzante come un’ubriacatura di champagne, e infine il mio posto, il mio lavoro, che avevo faticato tanto a trovare.
E qui mi fermo perché un bel noir non può essere raccontato. Mi è piaciuto molto. E’ una scrittura fatta di molta azione e poche elucubrazioni. E tanto accordeon….
La fille de joie est belle / Au coin de la rue là-bas / Elle a une clientèle / Qui lui remplit son bas / Quand son boulot s’achève / Elle s’en va à son tour / Chercher un peu de rêve / Dans un bal du faubourg / Son homme est un artiste / C’est un drôle de petit gars / Un accordéoniste / Qui sait jouer la java (“L’accordéoniste”, 1942 – Paroles et Musique: Michel Emer)

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