Ho letto “La vita come un romanzo russo” di Emmanuel Carrère

So che è bravissima a mentire, lo ha già fatto, e poi mi ha rimproverato di non essermi accorto di niente. Perché per mentire così bene deve amarmi, e io invece, per non essermene accorto, devo amarla di meno.
Probabilmente mi sono perso qualche evento contenuto nei libri precedenti (che non ho letto) di Emmanuel Carrère che mi avrebbero consentito di capire meglio questo romanzo. Dico sempre che è preferibile accostarsi a uno scrittore mai letto partendo dall’inizio della sua produzione, ma questa volta la segnalazione da parte di alcune amiche era troppo ghiotta. E poi come resistere ad un titolo così?
Carrère narra di se stesso, dei propri tormenti familiari e delle proprie ossessioni erotiche. Il libro quindi muove su due piani: la ricerca di notizie sulla morte del nonno materno, di origine russa, anzi georgiana, probabilmente collaborazionista e scomparso misteriosamente nel 1944, la storia del quale la mamma di Emmanuel ha rigorosamente sigillato tra i ricordi di un passato da dimenticare; il rapporto con la giovane compagna Sophie, a cui dedica un racconto erotico pubblicato su Le Monde, la cui vicenda è narrata in un libro precedente, “Facciamo un gioco”.
La voglia di Russia e più ancora della lingua russa, tenta fortemente Emmanuel che si avventura nella produzione di un documentario sulla vita di un soldato ungherese ‘dimenticato’ dai tempi della seconda guerra mondiale in un ospedale di Kotelnic, una piccola città russa abbandonata da dio e dagli uomini. Durante tre viaggi successivi in Russia con la sua troupe Carrère cambia l’oggetto del documentario almeno un paio di volte. Secondo lui è un modo per avvicinarsi al nonno, di cui non gli è consentito narrare la storia finché la mamma sarà in vita.
Frattanto Emmanuel prosegue la sua storia d’amore con Sophie, tormentata da gelosie e crudeltà assurde. Scrive il famoso racconto, una sorta di gioco erotico che si sviluppa durante un viaggio in treno e che, nella fantasia torbida dello scrittore, dovrebbe coinvolgere gli ignari passeggeri alle prese con la lettura di Le Monde, proprio quel giorno, a quella ora e su quel convoglio.
Se il racconto è davvero uscito il giorno previsto, se il treno davvero transita nel giorno previsto, se la carrozza bar non è in sciopero, è assolutamente sicuro – altrimenti sarebbe disperante – che un certo numero di passeggeri, e spero di passeggere, si dirigeranno lì all’ora indicata, come dire adesso, nella speranza di identificarti.
La pubblicazione della storia provoca un sacco di polemiche e il mondo letterario si divide in estimatori (la gran parte) e detrattori. Tuttavia non raggiunge l’obiettivo dello scrittore: Sophie non parte con quel treno e non scoprirà mai il contenuto del racconto a lei dedicato. Altri fatti sono sopraggiunti che porteranno a una ingloriosa fine della loro relazione.
Sono due libri in uno, nonostante gli sforzi di Carrère di tenere unite le storie. Forse degna del titolo è la parte sul documentario di Kotelnic, dove miseria, violenza, paura, delazione e rassegnazione fanno capire che in fondo la Russia non cambierà mai. Sull’altro versante, la vita di coppia ai tempi dei telefonini e degli sms non è più una novità letteraria. Piace però la franchezza, a rischio dell’impopolarità, con cui Emmanuel Carrère mette in piazza i suoi disastri sentimentali. Non ci fa una bella figura, ma è talmente narcisista che gli va bene così.
Mi guardavi quando mi alzavo dal letto la mattina per andare a preparare la colazione, di solito ero eccitato, ero continuamente eccitato per te, e dicevi: il mio cazzo, sorridendo. Sono le parole d’amore che ho amato di più nella mia vita.

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