Ho visto “On the Road”

Non c’è oro alla fine dell’arcobaleno, c’è solo merda e piscio. (J. Kerouac)
E’ alquanto strano che la versione cinematografica del libro di Kerouac arrivi soltanto 55 anni dopo la prima edizione a stampa. Evidentemente registi e produttori ne sono sempre stati alla larga. Fino a quando è arrivato questo regista brasileiro, Walter Salles, che nel 2004 aveva già portato sugli schermi “I diari della motocicletta”, altro adattamento da un diario, quello di Ernesto “Che” Guevara.
Come è altrettanto strano che io mi sia avvicinato a questo romanzo-manifesto della ‘beat generation’ soltanto qualche anno fa e non a vent’anni, in tempo utile per apprezzarne l’imponente carica di trasgressione (e qui ci sono tutte le trasgressioni possibili e, credo, immaginabili). Fatto sta che, così come già il libro, anche il film mi è sembrato alquanto datato, come coperto di polvere.
Il film è piuttosto fedele al libro, autobiografia di Jack Kerouac che copre gli anni dal 1947 al 1951. Sal Paradise è lo pseudonimo dietro al quale si cela lo scrittore. Il romanzo è un continuo suo girovagare attraverso gli Stati Uniti, da New York a San Francisco e viceversa e poi ancora, con una infinità di tappe intermedie e una divagazione in Messico. Sal viaggia con ogni mezzo, a piedi, in bus, con l’autostop, ogni tanto fermandosi a fare lavori umili come il raccoglitore di cotone o lo scaricatore. Viaggia da solo o con l’amico Dean Moriarty (nella realtà, lo scrittore Neal Cassady). Dean ha un’amante di sedici anni, piuttosto disinibita, alla quale aggiunge presto una moglie e due figlie. Ma anche lui è in continuo peregrinare attraverso gli States, senza meta, sempre senza soldi. Insieme Sal e Dean fanno un pezzo di vita senza programmi, tra sbronze folli, sesso ancora più folle, naturalmente tanta droga, con incontri stravaganti, sporcizia e promiscuità. E tanto jazz. Sullo sfondo, l’America maccartista e conformista. Sal è il primo a ravvedersi. Lo salva la scrittura. Dopo quattro anni di vita balorda consegna le sue memorie a uno scritto battuto su un lungo rotolo di carta. Il film lascia invece Dean ancora in balia di se stesso, affranto per l’abbandono dell’amico.
Film di due ore che mi ha annoiato per un ora e mezza. Si è ripreso un po’ nel finale. Ma la storia è quella. Nel libro mi pare più presente il jazz, qui ridotto a soli due momenti dal vivo e a una sequela di brani – ottimi brani – di sottofondo. Ne cito alcuni: “Scrapple From The Apple” (Charlie Parker), “I’ve Got The World On A String” (Ella Fitzgerald), “Dynamite” (Slim Gaillard), “Salt Peanuts” (Dizzy Gillespie), “A Sailboat In The Moonlight” (Lester Young), “Aberdeen Mississippi Blues” (Bukka White).
La fotografia di Eric Gautier rende merito ai paesaggi attraversati, per cui è consigliabile lo schermo maxi e la proiezione di qualità. Sam Riley (Sal Paradise) e Garrett Hedlund (Dean Moriarty) sono efficaci. Le sue due donne sono interpretate da Kristen Stewart e Kirsten Dunst. Due bei cammei per Viggo Mortensen (Old Bull Lee, che nella realtà sarebbe lo scrittore William S. Borroughs) e Steve Buscemi (un ambiguo viaggiatore).
Penso al desolante stillicidio della vecchiaia che avanza. (J. Kerouac)

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