Ho letto “Il narratore ambulante” di Mario Vargas Llosa

La scissione fra la teoria e la pratica, fra le intenzioni e i fatti, è l’emblema del sottosviluppo
Non sapevo nulla dei Machiguenga. Ora so che sono una tribù dell’Amazzonia peruviana e molto altro. Merito di questo bel libro di Vargas Llosa che non è un romanzo e non è un testo etnografico ma che dell’uno e dell’altro ha le caratteristiche. L’autore nel 1985 è a Firenze dove incappa in una mostra fotografica sui Machiguenga a cura di un reporter italiano scomparso proprio a causa di una malattia contratta in quel viaggio. Il fatto dà la stura ad alcuni ricordi di Vargas Llosa: una prima conoscenza diretta con la foresta amazzonica nel 1958 grazie a una spedizione universitaria mentre la seconda è del 1981 in occasione di un servizio televisivo sui Machiguenga per un programma da lui interamente curato. Le pagine narrate in prima persona sono alternate ai racconti di un narratore ambulante che diffonde la memoria collettiva nei posti più sperduti dell’Amazzonia. Un po’ come i trovatori medievali, i cantastorie siciliani, oppure i trovatori brasiliani dei sertão o i seanchaì irlandesi che lo stesso Vargas cita. Il narratore o parlatore è la figura chiave del libro: Vargas Llosa riconosce nelle foto di Firenze un vecchio compagno di studi universitari, Mascarita, appassionato linguista, scomparso da tempo e che forse ha scelto di esercitare questa originale attività tra i Machiguenga.
Brutte considerazioni lo scrittore peruviano dedica a Firenze, probabilmente visitata non al massimo del suo splendore. Viene descritta come una corte dei miracoli piena di prostitute e spacciatori e invivibile per le punture di zanzare. Ma era il 1985….
Chi conosce le cause e le conseguenze possiede la saggezza, forse

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