Ho letto “Exit” di Alicia Giménez-Bartlett

“Sono venuta qui per suicidarmi in modo originale, personalizzato, confortevole e poco traumatico – esattamente come promette la vostra pubblicità -, in modo civilizzato, e questo è proprio quello che intendo fare”.
Il dottor Berset, coadiuvato dal collega Eugenius e dall’infermiera tuttofare Matea, ha messo in piedi un bel business. Si è inventato una residenza, Exit, in cui ricchi, uomini e donne, stanchi e annoiati della vita, vanno a concludere le loro esistenze. Una pratica costosissima in un ambiente raffinato, per sei-sette persone alla volta che convivono per alcuni mesi: mangiano, si divertono, fanno escursioni, in attesa che per ognuno venga il momento giusto per dire basta. Sono cicli trimestrali che si concludono invariabilmente con il cambio di stagione. Naturalmente c’è il diritto di recesso, se uno cambia idea e vuole uscire, gli vengono restituiti i soldi, tranne quelli spesi per la sua sussistenza. Unica condizione per tutti i partecipanti è quella di essere in perfetta salute e di non essere depressi (occorre portare il certificato medico).
Il dottor Berset rimase solo nel giardino, davanti alla grande casa dove gli ospiti, nelle loro camere, cominciavano a spegnere le luci. Tutta quella gente che presto sarebbe morta, riposava sotto la sua protezione. Si sentì un po’ come un dio.
Berset si occupa di tutto dal punto di vista medico, mentre Eugenius è il fantasista che escogita le soluzioni adatte per il trapasso di ogni partecipante. C’è infatti chi vuole una morte ispirata a Giulio Cesare, chi a Madame Bovary, chi vuole morire con una messa in scena da antico Egitto. Questo è l’aspetto grottesco della vicenda.
“Tra noi la parola ‘mai’, come la parola ‘sempre’, dovrebbe aver perso ogni significato, anche nelle osservazioni di carattere generale.”
In realtà il romanzo è basato sugli intrecci dei rapporti tra i partecipanti. C’è il finanziere maturo e raffinato, la vedova ancora piacente, la coppia di lesbiche, il giovane poeta, un ferroviere che spende tutta la liquidazione per morire. Arriva anche un clochard che rappresenta la componente ‘anche i rifiuti umani devono morire’.
“Lei crede che un suicidio elegante debba essere diritto esclusivo delle classi dominanti?”
Matea cucina e organizza pranzi e cene in cui non mancano mai lo champagne né i liquori. Uno a uno spariscono, lasciando nel morale dei superstiti i segni indelebili del loro passaggio. Anche Eugenius, pur essendo socio della ditta, fiaccato dalla scomparsa di una delle giovani lesbiche, decide di uscire di scena. Poi, con l’autunno arriveranno nuovi ospiti.
La paura è la sola cosa che separa l’uomo dal suicidio: la paura di non essere capaci, la paura di perdere la dignità, la paura di scoprire che la fine, quando arriva, non è bella e facile come si immaginava.
Tema non nuovo, idea non originalissima, su cui si sono esercitati scrittori e registi. Ad esempio Olias Barco, che nel 2010 ha diretto Kill Me Please, commedia ‘nera’ ambientata in Svizzera su una clinica analoga, dove però mancava la complessa interrelazione tra i personaggi, una rete che Giménez-Bartlett ha saputo tessere molto bene.
Mi ha sorpreso che questo romanzo, scritto nel 1983, uscito da poche settimane da Sellerio, sia l’opera prima dell’autrice catalana. Allora era poco più che trentenne e la prima inchiesta della fortunata serie di Petra Delicado sarebbe arrivata solo una dozzina di anni dopo. Un esordio davvero eccellente. Il romanzo mi ha intrigato molto e me ne sono staccato a malincuore. Non so se qualcuno ci abbia già pensato, ma sarebbe un testo eccellente da ridurre e mettere in scena a teatro. In effetti, il titolo di uno dei capitoli del romanzo recita: Commedia brillante?

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