Ho letto “I territori del lupo” di Javier Marìas

Leggere “I territori del lupo” è come salire su un ottovolante e rimanere presto senza fiato, tali e tanti sono i mutamenti di prospettiva, di epoca, di azione a cui lo scrittore ci sottopone. Javier Marìas lo scrisse a diciassette anni e lo pubblicò nel 1971, ventenne, ambientandolo in America. Un’ambientazione sorprendente per uno che non vi era mai stato. Il giovane madrileno era stato però a Parigi per qualche settimana e lì si era imbevuto di cultura americana frequentando la gloriosa Cinémathèque: “Nel mese e mezzo che resistetti a Parigi nutrendomi di pane e mostarda vidi – non lo dimenticherò mai – ottantacinque film” scrive Marìas nella prefazione. Tuttavia non è sufficiente questa esperienza per montare un romanzo del genere. Occorre avere una naturale predisposizione verso la narrazione e un amore sviscerato verso il romanzo alla cui base c’è il rifiuto totale della catalogazione e dell’omologazione. Scrive ancora Marìas, questa volta nella postfazione a un’edizione del 1999: “Per me il genere romanzo è, semmai, sfuggente quanto onnicomprensivo”.
Ora, raccontarne la trama, anche per sommi capi è alquanto difficile.
Lo spunto è la saga della famiglia Taeger di Pittsburgh e inizia negli Anni Venti. Una famiglia numerosa e benestante, impegnata in politica e stimata dalla collettività. Dopo la morte di una zia si sussegue una serie di disgrazie. Restano solo i tre figli maschi che si disperdono per gli Stati Uniti, ciascuno per la propria strada e ognuno, a suo modo, diventando famoso.
Non voglio che la volgarità che ha già affossato la tua famiglia trascini a fondo anche me. Ci manca solo che tu sposi una cameriera italiana per far morire i tuoi di crepacuore.
La narrazione prosegue seguendo le vicissitudini di Milt, Ted, Art passando però attraverso altre storie che apparentemente non c’entrano nulla con quella iniziale. Tanto è vero che si ha l’impressione di leggere un libro di racconti e non un romanzo.
L’unica distinzione che potrai fare è quella tra eruditi e non eruditi. Gli eruditi sono i migliori. Per esserlo basta saper vedere, osservare, ascoltare e assimilare.
Storie di Mississipi, di coltivazioni e di braccianti neri e poi, con un ulteriore salto all’indietro, di loro antenati all’epoca dello schiavismo e della Guerra di Secessione, di ribellione, di tesori scomparsi e nascosti per decenni nell’incavo di un albero. Forse.
– Oh, sono furbi questi neri, ti fregano come vogliono. Ma tu non credere mai ai neri. Mentono sempre, e il più delle volte solo per il gusto di farlo.
Marginalmente riappare Ted che ha ucciso la moglie, un incidente, e che si rivolge per chiedere aiuto al fratello Art, un attore famosissimo. Si entra e si esce nei film interpretati da Art che fa coppia fissa con la moglie Glenda in pellicole hollywoodiane sdolcinate. Ma intanto proseguono altre storie, tra gangster e pupe, in una girandola infernale fino a quando sembra di intravedere una conclusione logica di tutte le storie, dentro un carcere dove si ritrovano alcuni personaggi di cui abbiamo già fatto la conoscenza.
Il penitenziario di Brewton, Alabama, era destinato unicamente a omicidi e assassini. Era composto di baracche in cui dormivano i detenuti e di campi di lavoro forzato, grandi distese umide e paludose dove le fatiche pesavano doppiamente a causa del caldo, delle zanzare e del fango.
Ma non sarà questa la conclusione, perché una volta di più il diciassettenne Marìas ci riporta dentro un film. O forse no. Imprevedibile e divertente romanzo d’esordio di uno dei più importanti scrittori spagnoli di oggi. Prima edizione italiana ad opera di Einaudi, dopo diverse, anche tagliate e corrette, nella sua lingua. Javier Marìas, a differenza di altri scrittori, non rinnega la sua opera prima, ma scrive: “Dubito che leggerei i miei romanzi, se non li leggessi – come faccio – mentre li scrivo”.

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