Ho letto “La testa perduta di Damasceno Monteiro” di Antonio Tabucchi

Quando passò davanti alla Biblioteca Nazionale non potè fare a meno di rallentare per guardarla con nostalgia. Pensò ai pomeriggi passati nella sala di lettura a studiare i romanzi di Vittorini…
Con Tabucchi ero inspiegabilmente fermo a Sostiene Pereira. I recenti articoli pubblicati in occasione del primo anniversario della sua scomparsa mi hanno però indotto a riprenderne la lettura. Ho cominciato da questo, in cui c’è ovviamente il Portogallo e, in comune con Sostiene Pereira, l’ambiente giornalistico. Il giovane cronista Firmino viene catapultato da Lisbona a Oporto per seguire un fattaccio di cronaca. Il direttore del giornale popolare per cui lavora, l’Acontecimento, ha bisogno di un supporto perché i corrispondenti locali scrivono pezzacci e di fronte a questo fatto c’è bisogno quasi di letteratura. In effetti Firmino è appassionato di letteratura, soprattutto quella italiana, e di Elio Vittorini su cui sta preparando la tesi. Malvolentieri parte per Oporto, un città che gli sta antipatica.
Come si può dire di non amare una città se non la si conosce bene?
Firmino si arma di una guida tascabile e prende posto nella pensione che gli ha riservato il giornale, da Dona Rosa. Si addentra nella città e nel mistero di un corpo senza nome che è stato ritrovato decapitato e con evidenti segni di tortura. Ma presto verrà anche ritrovata la testa. Il lavoro del giornalista è ottimo, le edizioni straordinarie del giornale con le cronache della vicenda vanno a ruba. Qualche dritta gli arriva da Dona Rosa, che sembra avere un particolare legame con il suo direttore. A Firmino, inoltre, comincia a piacere la città e la sua gente, i taxisti, i camerieri, i ristoranti, nonostante la sua avversione per la trippa, piatto tipico del luogo. Il mistero è presto svelato, si tratta del garzone di una ditta di import-export, venuto accidentalmente a scoprire un traffico di droga in cui è coinvolta la polizia.
La nostra città non ha bisogno di droga, è una città sana. A noi piace soprattutto la trippa. Lo dirà l’ufficiale sospettato del massacro quando Firmino va a intervistarlo. In effetti è come essere entrati in un secondo libro, perché c’è un testimone, un ragazzo amico dell’ucciso che però ha bisogno di essere tutelato e difeso. Allora entra in scena un avvocato molto particolare, un uomo obeso, dai gusti raffinati, libertario, profondo indagatore dell’animo umano. Un avvocato che cita Lotman e György Lukács e conosce a fondo tutte le letterature. Fernando de Mello Sequeira, detto Loton, per la forte somiglianza con Charles Laughton, il mitico attore spesso interprete al cinema di vicende giudiziarie.
“….in letteratura tutto c’entra con tutto. …un sistema fatto di sotterranee congiunzioni, di legami astrali, di inafferrabili corrispondenze. Se lei vuole studiare la letteratura impari almeno questo, a studiare le corrispondenze.”
Loton guida Firmino nelle ultime schermaglie della vicenda. Non ha importanza come andrà a finire. Sono spettacolari i suoi incontri con l’avvocato, le sue amare riflessioni (“la tortura non scomparirà mai perché non possiamo sopprimere le pulsioni distruttive dell’uomo”), le continue citazioni dotte, le imbeccate giornalistiche.
Per Firmino è una eccezionale scuola di professione e di vita: rimanderà la partenza per Parigi, dove ha vinto una borsa di studio, per dare ancora un contributo alla ricerca della verità.
“…se un uomo si lascia andare una volta a uccidere, molto presto inizierà a considerare cosa da poco la rapina, e di qui passerà al bere e a non osservare le festività, quindi a comportarsi in modo maleducato e a non rispettare gli impegni, una volta avviatosi su quella china non si sa dove andrà a finire…” (paradosso di de Quincey).

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