Ho letto “L’interprete dei malanni” di Jhumpa Lahiri

Succede che la sera prima ero andato al cinema a vedere Come pietra paziente in cui una giovane donna afghana fa una lunga e dolorosa confessione al marito in coma. Succede che il mattino dopo cercando un nuovo libro da iniziare, tra i tanti accumulati e in attesa di lettura, ho scelto proprio questo, scritto da una indiana. L’avevo tenuto lì da tanto tempo, giudicandolo a torto un libro da donnicciuole (mai fare questo errore!). Credo che il film della sera precedente abbia influenzato la mia scelta. Accade poi che questo libro che si compone di nove racconti si apra proprio con una lunga, dolorosa e reciproca confessione tra due giovani coniugi. Evidentemente la mano invisibile che mi ha guidato nella scelta voleva farmi riflettere. Ma le mie letture sono sempre caratterizzate da incroci straordinari. Come diceva il personaggio dell’avvocato nel penultimo libro che ho letto, La testa perduta di Damasceno Monteiro di Tabucchi, in letteratura tutto c’entra con tutto. ….un sistema fatto di sotterranee congiunzioni, di legami astrali, di inafferrabili corrispondenze.
Ma torniamo al libro di Jhumpa Lahiri. Nel primo racconto, Disagio temporaneo, i due giovani, indiani di origine ma ormai americani di seconda generazione, si ritrovano nella loro bella casa di Boston quando un guasto, peraltro segnalato dalla società elettrica, li costringe per un certo numero di sere al blackout totale tra le otto e le dieci. La coppia da qualche tempo è in crisi.
“Facciamo cosa?”
“Diciamoci qualcosa al buio”
“Ma cosa, non so nemmeno una barzelletta”
“Perché non ci diciamo qualcosa che non ci siamo mai detti?”

Le confidenze reciproche iniziano da cose banali, ma poi sera dopo sera si fanno sempre più delicate. I due, complice l’oscurità, si dicono cose ardite, che non si sarebbero mai raccontati, fino a farsi male.
Il racconto che dà il titolo al libro, L’interprete dei malanni, narra di una famigliola americana in vacanza in India, diretta al Tempio del Sole di Konarak, con una guida/autista del posto. L’uomo per vivere fa diversi lavori, tra cui – racconta ai suoi passeggeri – l’interprete per conto di un medico. Poiché parla diverse lingue e numerosi dialetti indiani (indi, bengali, orissi, gujarati), si trova spesso a tradurre in un linguaggio comprensibile al medico i sintomi dei poveri pazienti. “Quindi questi pazienti sono nelle sue mani. In un certo senso dipendono più da lei che dal medico”. In questo caso, mentre il marito è il classico americano tutto ‘macchina foto’ e bambini, la signora è più attratta dall’indiano che dai monumenti.
Cito questi due racconti, ma tutti sono molto belli. Il filo conduttore è un raffronto tra la civiltà occidentale e ciò che resta di quella indiana in individui che sono ormai americani da più generazioni. Tutti lavorano o studiano in università prestigiose, come i protagonisti di Questa casa benedetta, una coppia del MIT che trasloca in una nuova abitazione dove i precedenti occupanti hanno lasciato numerosi simboli del cristianesimo. Loro sono induisti, ma la donna li accetta e il marito non ne vuole sapere.
Lettura divertente e che fa riflettere. Jhumpa Lahiri vive negli Stati Uniti, nel 2000 ha vinto il Pulitzer con questo libro.

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