Ho visto “Come pietra paziente”

Una storia afghana portata al cinema con coraggio (ma la coproduzione è franco-tedesca) da un regista di Kabul, Atiq Rahimi, che ora vive a Parigi. E’ un film diretto molto bene, che si avvale di una stupenda fotografia, che poi vai a controllare ed è nientemeno che di Thierry Arbogast, pluripremiato direttore della fotografia, collaboratore abituale di Luc Besson. Gli intensi primi piani sono l’altra caratteristica del film: quelli della protagonista interpretata dalla straordinaria attrice iraniana Golshifteh Farahani e quelli del marito in coma, inquietanti per gli interrogativi che nascondono. La donna, in una casa semidiroccata dalla guerra ancora in corso, accudisce il marito, lo alimenta in maniera rudimentale con una sorta di flebo infilata in bocca, lo lava, lo nasconde alla vista degli estranei. Amore o senso del dovere? Giorno dopo giorno però la donna inizia a raccontargli la propria vita, i tempi in cui lui era in guerra e le confidenze (o confessioni?) si fanno sempre più delicate, fino alla rivelazione che le due figliolette non sono sue. Nel frattempo è passato per casa un giovane mujaeddhin, un ragazzo inesperto a cui finisce per affezionarsi ma che soprattutto la fa sentire finalmente donna. E al marito comatoso racconta anche questi particolari. Il finale è ciò che non ti aspetti, tragico e liberatorio. Ma la strada per l’emancipazione della donna in quei paesi è ancora molto lunga. Film come questo possono contribuire.
Il titolo fa riferimento a una leggenda afghana secondo la quale è possibile raccontare le proprie pene, i propri segreti a una pietra magica, una ‘pietra paziente’ (la syngué sabour). Quando la pietra è pregna di tutti i segreti della persona in questione si disintegra. Come il marito in coma…..

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