Ho letto “Giallo d’Avola” di Paolo Di Stefano

Tra cronaca documentale e ricostruzione di fantasia, Paolo Di Stefano propone una storia di sessant’anni fa, una saga familiare che si è protratta per sette-otto anni, ma i cui strascichi giudiziari si sono fatti sentire per altri venti. I protagonisti sono i fratelli Gallo, Salvatore e Paolo, con le rispettive famiglie, costrette a convivere, dopo un’eredità ripartita anche con altri fratelli, nella stessa masseria nei pressi di Avola. Terra buona, di coltivazioni e armenti, lavorata con il sudore da entrambi i nuclei familiari, ma che genera rancori e dispetti, inganni e denunce. Fino alla scomparsa di Paolo, quando di lui un mattino restano un berretto e numerose chiazze di sangue. La moglie subito accusa il cognato: “U dicistivu e u facistivu!”. I carabinieri seguono la strada più facile, Salvatore viene incriminato dell’uccisione del fratello anche se il corpo non è stato ritrovato.
E poiché è più facile credere al male che al bene, a poco a poco si diffonde l’opinione che sia avvenuto un grave fatto di sangue e che, nella contrada, Caino si sia reincarnato in Salvatore Gallo. I carabinieri verbalizzano.
Si innesca così un avvincente legal thriller rurale in cui i protagonisti diventano gli avvocati e i giudici, fino all’apparizione di un giovane giornalista della “Sicilia” che comincia a raccogliere le testimonianze su un morto presunto ma in realtà vivo e vegeto. Una bella inchiesta giornalistica che lo porta a realizzare lo scoop del morto-vivo di Avola, come è stato definito dagli organi d’informazione dell’epoca. Così mentre l’ergastolano Salvatore lascia il carcere di Ventotene e si avvia verso la sacrosanta riabilitazione, il redivivo fratello Paolo che si era nascosto per anni lasciando languire in galera un innocente, entra nel carcere di Siracusa. I loro destini si sono capovolti. E in un paesotto sperduto sui monti Iblei un vecchio cantastorie intona: “Lu ‘nfilici lacrimava, notti e jornu cu raggiuni, ca innucenti si truvava, nella scura e ria priggiuni”.
Paolo Di Stefano è di Avola. E’ comprensibile che senta molto vicina questa vecchia storia, ma nel narrarla mette la stessa meticolosità, la stessa pignoleria con cui ha scritto il precedente La catastròfa sulla sciagura nella miniera di Marcinelle (Belgio) nel 1956. In Giallo d’Avola tocca in più le corde del grottesco, aiutato in questo dalle belle espressioni in dialetto siculo, senza tuttavia arrivare ai livelli di comicità che raggiunge il Camilleri di Montalbano. Di Stefano mi piace, lo seguo.
Sebastiano non voleva saperne: “Ammìa mi fa tutto schifo, porca madosca”

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