Ho letto “L’angioletto” di Georges Simenon

Era uno scherzo della memoria, un’illusione ottica?
E’ curioso che abbia letto L’angioletto in questi giorni che conducono a una manifestazione in cui a Torino si festeggia Porta Palazzo con la proiezione di film, in particolare Irma la dolce di Billy Wilder, sotto la tettoia del mercato. Perché sia il libro, sia il film celebrano Les Halles, i mercati generali di Parigi fino all’abbattimento avvenuto nei primi anni Settanta.
In questo ‘roman dur’ Simenon ci porta al mercato attraverso gli occhi di Louis Cuchas, quinto di sei fratelli nati da padri diversi e da una madre che di giorno si arrabatta vendendo verdure per strada e alla sera si porta a casa amanti assortiti. Famiglia povera che vive in una promiscuità incredibile in un’unica stanza in rue Mouffetard. Ma Louis cresce bene, parlando poco e osservando molto. Per la sua remissività, a scuola, con i compagni, è soprannominato l’angioletto.
Forse la sua calma imperturbabile, il suo sorriso sereno, dipendevano proprio dal fatto che non si poneva domande.
In casa gli uomini cambiano in continuazione e i ragazzi crescono senza un modello paterno positivo. Per Louis però c’è il maestro Charles, poi ci sarà Samuel il grossista delle Halles e infine il signor Suard, il gallerista. Tutte persone che si prendono cura del futuro di Louis. Perché con i fratelli non ha un gran rapporto: sono tutti esuberanti mentre lui è placido.
Forse il suo non era un vero e proprio sorriso, ma il riflesso di una dolce e quasi costante soddisfazione.
Ma Louis è l’unico che va un po’ avanti con gli studi, manifesta qualche talento nel disegno e resta a lungo accanto alla mamma quando la casa a poco a poco si svuota. Dapprima l’aiuta con il carretto, poi trova un impiego come aiutante a Les Halles. Intanto c’è stata la prima guerra mondiale e il ragazzo, non cresciuto in altezza, è stato riformato, mentre i fratelli sono andati a combattere.
Per farla breve, Louis Cuchas diventerà un grande della pittura, esporrà all’estero, i suoi quadri saranno in molti musei, ma serberà sempre l’innocenza dell’infanzia e il soprannome di angioletto.
“Perché l’ha chiamato così?”
“Cuchas? Perché alla scuola comunale si lasciava picchiare da tutti senza dire niente al maestro”.

Romanzo scritto nel 1964, bello e assai diverso dal resto della produzione di Simenon. E’ una sorta di favola in cui la bontà d’animo alla lunga vince sulle difficoltà della vita.
“Maestro, posso chiederle qual è l’immagine che ha di se stesso?”
“Quella di un ragazzino”.

Infine sono sobbalzato quando ho letto questa frase: Ne derivò una serie di piccoli drammi causati dalla presenza, al piano superiore, di una famiglia di piemontesi con sette o otto figli. Come dire – e ricordare – che c’è stato un tempo in cui eravamo tutti migranti. Anche i piemontesi.

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