Ho visto “The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca””

Un’americanata grondante retorica e luoghi comuni? In parte sì, è il cinema che gli americani sanno fare meglio: combinano disastri in giro per il mondo e poi ci fanno su un bel film e pareggiano moralmente i conti. E’ però un bel ripasso di storia del Novecento, pur se inevitabilmente sbrigativo in alcuni passaggi, grosso modo dal lavoro nei campi di cotone in Georgia fino all’elezione di Barak Obama nel 2009. In questo arco di tempo c’è la vita di Cecil Gaines, che arriva alla Casa Bianca con il ruolo di maggiordomo sotto la presidenza Eisenhower e ne esce con Ronald Reagan. Salvo poi vivere abbastanza da arrivare a vedere l’elezione del primo presidente nero. E allora in quella occasione può indossare finalmente la cravatta di Kennedy regalatagli da Jacqueline in suo ricordo. Si chiude così il cerchio attorno a due grandi presidente democratici. Ma suddividere i presidenti americani in buoni e cattivi (democratici e repubblicani) non sarebbe corretto, perché Cecil applica alla lettera quanto gli è stato insegnato all’inizio della carriera alla Casa Bianca: mai occuparsi di politica, mai commentare, restare come invisibile nelle stanze in cui lavora. E poi di politica ce n’è fin troppa a casa sua, grazie al figlio maggiore Louis (ripudiato) che abbraccia di volta in volta tutte le tendenze della resistenza nera, da quelle pacifiste di Martin Luther King alla lotta armata delle Black Panthers. Sempre con la schiena dritta, impeccabile nel suo smoking e refrattario a tutte le provocazioni, Cecil Gaines considera tutti uguali i presidenti, servendoli in egual misura, quello più paternalista e quello stitico che seduto sulla tazza con la porta aperta continua a impartire direttive. Scorrono le immagini di Eisenhower (Robin Williams), Kennedy (James Marsden), Johnson (Liev Schreiber), Nixon (formidabile John Cusack), Ford e Carter solo evocati, fino a Reagan (davvero eccellente Alan Rickman) e di tutti emergono le debolezze umane e le discrasie tra pensiero e azione politica, mentre fuori dalle mura della Casa Bianca si consuma la Storia, con le battaglie per i diritti civili a fare da filo conduttore.
Altra storia è la vita domestica di Cecil che si intreccia con quella politica per tutto il film ma che risulta meno convincente nonostante la bravura di Forest Whitaker e della straordinaria Oprah Winfrey (la moglie Gloria). La riconciliazione con il figlio Louis avviene soltanto dopo aver sacrificato alla patria il figlio minore, morto in Vietnam, e dopo che Louis, terminati gli studi, ha intrapreso la carriera politica (nei democrats naturalmente). Frattanto l’ormai anziano Cecil si è congedato da Reagan e ha iniziato a occuparsi anche lui dei diritti dei neri, un desiderio rimasto sopito dentro di sé per tutti gli anni in cui ha servito la White House.
Tutta la vicenda è narrata fuori campo da Cecil e termina con la sua visita a Barak Obama, ricevuto con tutti gli onori. L’organizzazione del lavoro dei domestici (quasi tutti neri) nella Casa Bianca è tra le cose più interessanti del film, come pure la sfilata dei presidenti e delle loro mogli (c’è pure Jane Fonda che interpreta Nancy Reagan) soprattutto quando sono colti in momenti poco ufficiali. Il cast, a dir poco eccezionale, annovera anche Vanessa Redgrave, Cuba Gooding Jr., Mariah Carey, Lenny Kravitz. Basato su una storia vera, il film è costato 30 milioni di dollari.
Del regista Lee Daniels attendo ancora l’uscita in Italia di The Paperboy controverso film presentato a Cannes 2012 e giudicato negativamente, tratto da un romanzo che mi ha intrigato molto, Un affare di famiglia (1995) di Pete Dexter. Lo sfondo è semre quello razziale.

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