Ho letto “Il figlio del povero” di Mouloud Feraoun

Sono i miracoli che compie la lettura, però devi essere pronto a cogliere gli stimoli, altrimenti ti perdi dei pezzi interessanti. Mi è accaduto che leggendo In autunno cova la vendetta di Philippe Georget, noir dell’estate scorsa, pura letteratura d’evasione, venisse citato Mouloud Feraoun, scrittore algerino assassinato dall’Oas il 15 marzo 1962. Incuriosito, mi sono procurato i due romanzi, tradotti e pubblicati tra il 2006 e il 2008 da una piccola casa editrice di Messina, Mesogea, che lodevolmente si occupa di letterature mediterranee. Il primo è questo, Il figlio del povero, autobiografia pubblicata a spese dell’autore nel 1950, prima dell’esplosione della guerra d’indipendenza algerina, ma di cui si avvertono i prodromi.
Lo scrittore (nato nel 1913) si nasconde dietro lo pseudonimo di Fouroulou Menrad, che sarebbe l’anagramma del suo nome, e racconta la propria infanzia a Tizi, un povero villaggio di duemila abitanti sulle alture della Cabilia, dove lo spartiacque tra la ricchezza e la povertà è il possesso di qualche animale: un paio di buoi, una vacca, alcune pecore, un mulo o un asino, fichi e uliveti e un ettaro di terra da coltivare. La famiglia di Fouroulou non è tra queste e al bambino, unico maschio con tre sorelle più grandi, tocca sgobbare.
Lo sanno tutti che la severità dei genitori produce fatalmente un povero diavolo timoroso, debole, delicato e senza spina dorsale come una femminuccia.
Lui però è diverso e instaura una sorta di dittatura, peraltro in ossequio a quella cultura, islamica e maschilista, nei confronti delle sorelle e, come racconta in prima persona “avevo cinque anni, ben presto abusai dei miei diritti“. La prima parte del romanzo è una sorta di diario di Menrad bambino, descrive la vita grama della famiglia e si arresta con la morte consecutiva di due giovani zie, Khalti e Nana, entrambi vasaie, alle quali era molto affezionato.
Ma sono ugualmente riconoscente a Khalti per avermi insegnato, in tenera età, a fantasticare, ad avere il piacere di crearmi un mondo a modo mio, un paese di chimere in cui solo io posso penetrare.
La seconda parte, il cui artificio letterario è il ritrovamento di un manoscritto nel cassetto della scrivania di scuola quando Menrad è ormai maestro, è narrata in terza persona. Concerne la parte degli studi a cui il bambino ha avuto accesso dopo essere riuscito a guadagnarsi una borsa di studio. E’ una situazione da privilegiato rispetto ai suoi coetanei e lui ne è ben conscio. Nel frattempo il padre, emigrato come operaio a Parigi, ha subito un grave infortunio sul lavoro per il quale è rientrato in patria, portandosi dietro un’indennità tale da sistemare economicamente la famiglia che Fouroulou deve però abbandonare per trasferirsi in città. Lo aiutano ad inserirsi un compagno e un missionario protestante che lo ospita in un convitto. E dopo il corso di studi, superato brillantemente, c’è Algeri che lo aspetta per il concorso da insegnante.
“Vai ad Algeri” gli disse. “Laggiù sarete in tanti. Ne sceglieranno solo qualcuno. E la scelta la fa sempre il caso. Vai ad Algeri come i tuoi compagni. Noi, lassù, aspetteremo. Se fallisci tornerai a casa. E poi, la tua istruzione, non te la possono prendere più”.
Il linguaggio di Feraoun è semplice e diretto, a tratti poetico. Il libro ha il pregio di aprire uno squarcio sulla cultura cabila e, più in generale, sull’affrancamento dalla miseria attraverso lo studio.

 

 

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