Ho letto “Il paradosso dell’aquilone” di Philippe Georget

Pazzesco come il tepore serale possa risvegliare gli odori. Li solleva, li esalta, li fa ruttare di felicità.
Di Georget avevo letto i noir D’estate i gatti si annoiano (2012) e In autunno cova la vendetta (2013), protagonista l’ispettore Gilles Sebag, della polizia di Perpignan. Questo è di altro genere, si svolge a Parigi nel mondo della boxe e fra criminali delle varie etnie della ex Jugoslavia. Raramente un libro mi ha preso così tanto: come drogato l’ho letto per un giorno intero, terminando le 400 pagine a notte fonda, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo. E’ strutturato come tre incontri di pugilato, ciascuno con dodici round (capitoli).  Protagonista è Pierre Couture, un pugile di ventisette anni già sul viale del tramonto. In passato è stato campione nazionale dei welter e vicino a combattere per la corona europea. Poi il declino. Pierre si racconta con grande autoironia. Il primo capitolo è fulminante e ce lo mostra sul ring in balia di un avversario nettamente inferiore ma dal quale si lascia picchiare e sconfiggere quasi senza provare a restituire i cazzotti. Con gusto autodistruttivo. Pierre ha il mal di vivere.
Mi chiamo Pierre. Ho ventisette anni. Mi piacerebbe piangere con la testa sprofondata nel grembo di una donna. Ma l’unica donna che ho amato mi ha lasciato due anni fa, mia sorella non ha avuto il tempo di diventare grande e mia madre… Mia madre mi ha ucciso quando avevo dieci anni.
Sbarca il lunario lavorando al Café de la Poste, quasi adottato dall’anziana coppia che ne è proprietaria. La sera dopo il match – con la borsa avuta riesce a malapena a pagarsi qualche settimana di benzina per la sua Clio – si accorge di essere seguito da due loschi figuri, cappotti lunghi. Due silhouette alla Sergio Leone.
Pierre ha un unico amico, Sergej, di vent’anni più grande, taxista, ex puglie che ha preso parte alle Olimpiadi di Los Angeles 1984 ed ex poliziotto croato dal passato piuttosto nebuloso. Il colpo di fulmine esiste anche tra amici.
Pensieri e ricordi lo riportano sempre ai tempi in cui aveva una famiglia, ai funerali dei suoi, alla sua infanzia di bambino affidato ai servizi sociali, sballottato tra famiglie affidatarie, poi le prime marachelle, qualche ruberia, il pestaggio di un capofamiglia pedofilo e i poliziotti che non lo credono.
Gli sbirri sono stronzi. Oggi come ieri. Stronzi e bastardi.
Dopo tanti anni in cui ha rigato dritto (la fedina penale era tornata pulita) Pierre, a corto di quattrini, viene indirizzato da Sergej da un prestasoldi di origine ungherese per un lavoretto da pochi euro. Per essere la prima volta che sgarra gli va proprio male e da lì cominciano i suoi guai.
Non c’è che dire, gli sbirri hanno la passione di buttare lì delle informazioni e poi lasciarmi a bocca asciutta. Bisogna anche dire, però, che io ho il dono di irritarli continuando a fingere di non essere invischiato in questa faccenda.
E siamo solo alle prime pagine del romanzo! La storia si dipana più avvincente che mai. Subito due cadaveri, poi entrano in scena fuoriusciti dall’est europeo, croati e serbi, sloveni e bosniaci che dopo vent’anni dalla guerra di Jugoslavia sono ancora in cerca di vendette. Unico personaggio reale che viene citato è il criminale di guerra Ante Gotovina, quello dell’Operazione Tempesta. E poi polizia e servizi segreti. Il povero Pierre è preso in mezzo. Il suo amico Sergej scompare. Solo nel mondo della boxe trova tranquillità e il suo manager e allenatore, Emile, gli procura un nuovo incontro. Tutto sempre raccontato con grande ironia.
La vestaglia si apre alla grande e mi offre una vista d’insieme sulla sagoma del suo seno sinistro. Un chilo e tre quarti se non addirittura due chili, non posso fare a meno di correggermi.
Dalla descrizione del secondo match, disputato contro un irlandese, sono stato preso dall’ansia e non mi sono più staccato dal libro. Tenero e doloroso. Una lettura straordinaria che raccomando a tutti, soprattutto a chi ama i personaggi perdenti, di ogni genere e a ogni latitudine.

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