Ho letto “La formica rossa” di Benito Mazzi

Non avrei mai scoperto Benito Mazzi, scrittore e giornalista vigezzino, se la scorsa estate non mi fosse caduto lo sguardo su un libro la cui copertina riportava in bella evidenza una fisarmonica rossa, di quelle a bottoni. Ho comprato La formica rossa (Priuli & Verlucca, 2003) pregustando immaginifiche storie musicali su e giù per le valli alpine. Invece mi sono trovato di fronte ad un’autobiografia dell’autore che copre pressappoco dal dopoguerra agli anni settanta. Innumerevoli personaggi – di quelli veri, che non si trovano in città – con le loro storie prendono forma nelle duecento pagine del libro. Raccontata con un linguaggio che mescola all’italiano forme italianizzate del dialetto di quelle parti, un misto di ¾ di lombardo e ¼ di piemontese, la storia fa riemergere parole ed espressioni che avevo dimenticato. Come l’uso di barbarotto al posto di mento, che non sentivo più da una vita, forse dalla scomparsa della mia nonna lombarda. E la fisarmonica poi c’è: in due o tre capitoletti centrali quando il protagonista, il Benito ragazzo, si perde con un gruppo di amici a suonare in fumose osterie di montagna, tra partite a carte e chilometriche bevute di vino rosso. La “barbonica” è la fisarmonica mentre il titolo richiama il testo di una marcetta suonata dal gruppetto: … e la formica rossa, la rampia sü pal mür. Un gioiellino di libro letto in tre serate.

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