Ho visto “Still Alice” di Richard Glatzer e Wash Westmoreland

Docente in carriera alla Columbia University, Alice Howland scopre alle soglie dei cinquant’anni di avere una forma di Alzheimer precoce. Tanti piccoli segnali preoccupanti – perdere le parole, non ricordare gli appuntamenti, smarrirsi durante il consueto percorso di jogging – la inducono a recarsi da un neurologo e a fare indagini più approfondite. Ne informa il marito John e poi, trattandosi di una forma ereditaria, anche i tre figli. Per chi ha costruito la propria vita sulle parole – Alice infatti è linguista – si tratta di una tragedia ancora più grande. Lascia l’insegnamento e si accinge a una vita angosciante, caratterizzata da una progressiva e definitiva perdita di memoria.  Il neurologo tra l’altro spiega che nei soggetti molto istruiti la malattia progredisce più rapidamente. Assistita come meglio non potrebbe dal marito, un medico con un occhio costante alla propria carriera, Alice attua tutti i piccoli accorgimenti che possono quanto meno frenare il decadimento, come continui esercizi pratici e alimentare i ricordi. Ma la battaglia è inutile, la sconfitta è già programmata. Peraltro la sua è stata una vita agiata, felice e con una bella famiglia. In un momento di lucidità autoregistra un messaggio video a se stessa per quando avrà perso la memoria del tutto, con le istruzioni per suicidarsi. Cosa che poi tenta di fare ma non riesce.
Non è un grande film, ma anche se il tema non è così originale – si contano a decine i lungometraggi sull’Alzheimer, cito tra gli ultimi Una sconfinata giovinezza (2010) di Pupi Avati – ha il pregio di tenere acceso un riflettore su una patologia che ci tocca praticamente tutti. Alzi la mano chi non ha o non ha avuto un parente, un amico, un conoscente con questa malattia. Non a caso la proiezione a cui ho assistito era seguita da un esercito di pantere grigie, chissà perché, forse crediamo di esorcizzare…
La sceneggiatura, trasposta dall’omonimo romanzo di Lisa Genova, una neuroscienziata, ha il buon gusto di non spingere a fondo con le immagini del definitivo declino di Alice. Si ferma un po’ prima, ma ciò che vediamo è già sufficiente per capire e soprattutto per emozionarsi. Mentre svanisce la memoria, e lo si comprende molto bene dallo sguardo sempre più appannato e smarrito di Alice, pare scomparire anche la fisicità della persona. Julianne Moore esprime tutto questo in maniera eccellente, con una prova degna della nomination all’Oscar 2015. Dire che il film è costruito intorno a lei non è esagerato. Un po’ bollito appare Alec Baldwin che interpreta il marito. Dei tre figli la più convincente è la minore, Lydia, interpretata dalla giovane Kristen Stewart (aveva fatto tutta la saga di Twilight, una Biancaneve nel 2010, On the road nel 2012). L’ambientazione newyorkese e nel cottage sulla costa giova molto alla fotografia. I registi americani Richard Glatzer e Wash Westmoreland sono compagni nella vita. Glatzer è affetto da Sla e ciò aggiunge una triste coincidenza al film.

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