Ho letto “La mia vita di uomo” di Philip Roth

“Tutta la vita è mortalmente seria, ed è la morale stessa, insieme alla vita, a imporci di non restare fedeli alle irrealistiche chimere della nostra gioventù”.
Ancora una volta la famiglia è origine di tutti i conflitti nei quali un individuo può incappare nel corso della vita. Anche per lo scrittore Peter Tarnopol, ennesimo alter ego di Philip Roth.
Per proteggermi dall’ansia profonda generata da mia madre avevo coltivato un forte senso di superiorità, con tutte le implicazioni di ‘colpa’ e ‘ambivalenza’ connesse al considerarmi ‘speciale’.
Tarnopol, per difendersi da un matrimonio oltre misura sbagliato ma principalmente dai fantasmi della propria infanzia, ricorre ad uno psicanalista freudiano di New York, Otto Spielvogel, lo stesso che compare in “Lamento di Portnoy” il capolavoro universalmente riconosciuto di Roth. Questi lo tradisce trattando del suo caso, maldestramente mascherato, in una articolo pubblicato su una rivista scientifica sul rapporto tra narcisismo e creatività.
Tarnopol parla delle sue donne, Peppy, Susan, Maureen che diventerà sua moglie – un matrimonio fondato sulla frode -, lo ricatterà e infine morirà in un incidente stradale lasciandolo finalmente libero.
Mi abbracciò. Non l’avevo mai vista così felice, e per la prima volta mi resi conto che era davvero matta. Avevo appena chiesto la mano di una matta. Con mortale serietà.
A rimescolare le carte sono due racconti distinti che occupano la prima parte del libro – “Anni verdi” e “Corteggiare il disastro” – e che hanno per protagonista il solito Nathan Zuckerman, il personaggio che ha costellato gran parte dell’attività di Roth, il quale finge questa volta essere frutto della penna di Tarnopol e quindi funzionali all’insieme del libro.
Non è poi così complicato come sembra, ma il ponderoso volume va letto con attenzione, meglio sarebbe avendo una certa dimestichezza con la fitta produzione letteraria dello scrittore di Newark. Purtroppo la pubblicazione dei suoi libri in Italia avviene senza alcuna organicità cronologica e quindi riesce difficile averne un quadro esauriente. “La mia vita di uomo” è del 1974, scritto cinque anni dopo “Lamento di Portnoy”.
Adesso è troppo tardi per dire che non avrei dovuto, che diventando uno scrittore non ho fatto altro che esacerbare le mie perniciose ossessioni. E’ stata la letteratura a ficcarmi in questa situazione ed è la letteratura che ora deve tirarmici fuori.

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